Così crudele è la fine – Intervista a Mirko Zilahy

Una chiacchierata con Mirko Zilahy, in libreria con Così crudele è la fine, terzo libro con protagonista il profiler Enrico Mancini.

51ro-dEciAL“Dal fondo dello scavo abbandonato”. Parti con ancora una volta con un endecasillabo…
È così che si uccide, La forma del buio e Così crudele è la fine hanno un’apertura lirica, ad effetto, capace di insinuarsi nella memoria fonica del lettore e fare spazio al rumore della prosa, quello che nelle mie intenzioni deve produrre un effetto atmosferico indelebile. Parto perciò dall’immagine sonora di un luogo: In Ë così che si uccide  era il grande Gazometro (“Sopra l’alto reticolo d’acciaio”), ne La forma del buio  il cancello di accesso al viale della Galleria Borghese (Al centro del cancello arrugginito”) e qui uno scavo archeologico al Portico d’Ottavia.

Buio, luce, specchio, casa. Sono queste le parole chiave del libro?
Aggiungerei superficie e profondità, bellezza e sangue, storia, mistero. E identità ovviamente!

Il primo riferimento che mi viene in mente è il William Wilson di Poe, sbaglio?
Non sbagli affatto. Poe è un riferimento ineluttabile per chi voglia parlare di identità, non solamente di doppio. Ma è soprattutto l’autore che più di ogni altro, e in maniere terribili sorprendenti ha raccontato la paura della morte in vita.

Poi Lacan e la sua teoria dello specchio. Già nel precedente libro l’immagine dello specchio era presente, infatti Mancini a un certo punto diceva: devo guardarmi allo specchio.
Sì, qui è legata al tema del mio thriller, l’Identità, che viene dopo Giustizia e Realtà dei primi due. Cos’è l’identità? Lacan se ne occupa a proposito della psicologia infantile e dell’immagine dei bambini allo specchio, a come serva per costruire la loro identità a partire dall’immagine di sé. Io ne metto in dubbio, come per Giustizia e Realtà, i fondamenti stessi, attraverso l’opera di un assassino che… 

31043892_10155958165962489_2591407254351642624_nAnche Roma si specchia nel suo passato glorioso e non si riconosce. Una Roma in rovina che si specchia nella magnificenza delle sue antiche rovine…
Ma gli specchi sono sempre deformanti, non solo nei romanzi di genere. L’immagine che scrutiamo all’interno è già, ad esempio, invertita. Roma ha una storia enorme ma già ai tempi di Leopardi, per fare un esempio, era l’ombra di se stessa e si specchiava nell’antica memoria di se stessa. Le bellezze di Roma hanno tutte una doppia, se non molteplice, identità. Lo stesso monumento si porta dietro una carica di bellezza, una storia di sangue e una serie di segreti e misteri che ne svelano un quid, una sorta di crudele peculiarità. Pensiamo al Colosseo…

A casa dell’ispettore Walter Comello è appeso il poster de “I giorni dell’ira”. Non è scelto a caso, vero?
È uno dei film che mi ha segnato da ragazzo e che ricordo con un grande senso di nostalgia. Fino a qualche anno fa non ero un appassionato di film western, ma poi ho scoperto il mito dietro ai film di Leone, ad esempio. E l’ispettore Comello si porta dietro una sua visione della vita, semplice, diretta, in cui il giusto è giusto e l’errore si paga, sempre. In cui la giustizia è semplice e si esercita per gli altri. I più deboli. E contro ogni forma di prevaricazione.

La coincidenza degli opposti, la complementarietà: per esempio anche le parole luce e buio, o le loro immagini, sono ricorrenti e sempre vicine nel testo.
C’è un po’ in tutti i miei romanzi. Mi piace mettere assieme gli opposti e vedere che succede quando reagiscono. Il sotto e il sopra. Il dentro e il fuori, soprattutto. La psiche e la (cosiddetta) realtà. Non sono un manicheo, ma avverto, nella vita come nella letteratura delle dicotomie sensibili. Io, ad esempio, sono uno scrittore “interno”, mi interessa il fuori come sfondo, per creare atmosfera, metafore, simboli, mai per raccontare la società, o la cronaca. La letteratura è altrove, semplicemente.

Niko, il ragazzino Rom, è l’unico che si riconosce da subito? L’unico che sa chi è e a cosa appartiene? È forse l’unico veramente libero di essere se stesso?
In realtà Niko attraversa, come tutti i personaggi dei miei tre romanzi, un cambio di stato. Ha tanti dubbi su se stesso, sulla sua posizione in una società che non lo considera e se lo fa lo fa spesso con violenza. Ma non vuole nemmeno tornare nel campo da cui è scappato anni prima. Si chiede continuamente, a modo suo, io chi sono?

Credi che la morte sia l’unico momento di congiunzione vera e assoluta con il proprio Io?
Questa è una domanda bellissima, Cristina. Lo è.
In ogni corsivo dei miei romanzi le vittime hanno uno speciale, precipuo, momento rivelatore. Ogni morte violenta, perpetrata dall’Ombra, dallo Scultore o dallo sfuggente omicida in Così crudele è la fine, trova il suo massimo lirismo nel momento che precede la fine. L’epifania della morte trionfata.

Giustizia, realtà, identità, sono le parole con cui identifichi i libri della tua trilogia: perché la chiami la trilogia degli spettri?
Gli spettri sono i valori in cui ci identifichiamo, in cui crediamo, su cui facciamo conto individualmente e a livello sociale ma che non sempre ci aiutano a stare bene. Giustizia, Realtà e Identità sono tre cardini del pensiero occidentale su cui si fonda la nostra società, il nostro modo di vivere ogni giorno. Ma siamo sicuri che siano valori davvero assoluti, oggettivamente condivisibili? I seriali fanno questo, prendono a spallate il nostro sistema di valori, sono elementi perturbanti della società, e i miei lo fanno portandosi dietro un tema, un ascendente di segno negativo che si lega ai tre grandi temi in cui ci specchiamo e cerchiamo di riconoscerci. Di individuarci. È davvero così? E poi c’è Roma, la città degli spettri per antonomasia.

 Sbaglio o le tue scelte lessicali sono leggermente cambiate rispetto ai precedenti?
Se ti riferisci allo stile direi di sì. Fa parte dell’evoluzione di uno scrittore e del fatto che in ogni mio romanzo della trilogia erano il tema e l’ambiente a dettare la forma della scrittura. In Così crudele è la fine avevo bisogno di una scrittura più asciutta, senza rinunciare al lirismo dei corsivi, per raccontare una paura senza nome, che il lettore scoprirà assieme all’assassino del romanzo.

Il secondo libro era la trasformazione, la domanda implicita era “ cosa stiamo diventando?” con
Così crudele è la fine hai definitivamente dato la risposta?
Credo di sì. Questo romanzo ci racconta soprattutto delle domande e delle risposte che ognuno di noi si dà ogni giorno su chi siamo, costruendo letteralmente la propria figura allo specchio, raccontandosi, con uno scopo o l’altro, la propria autobiografia.

Avevi affermato che scrivere il secondo libro, La forma del buio, è stata una sfida. E scrivere il terzo?
Un massacro! Chiudere la trilogia in poco più di due anni dall’uscita di È così che si uccide è stato un lavoro quotidiano e snervante, un’immersione nell’universo narrativo che ho creato e da cui, a un certo punto, diventa difficile evadere.

La scrittura è maschera o specchio?
 La scrittura è un sintomo.

Tu hai capito chi sei e cosa vuoi?
Occorrerà un’altra dozzina di romanzi, ad occhio e croce!

Giochiamo: se avessi uno specchio o un ritratto alla Dorian Gray a cui affidare un tuo difetto per liberartene, cosa gli daresti?
Dei sette vizi capitali mi mancano solo l’invidia e l’avarizia. Piuttosto mi piacerebbe smettere di coltivare le mie paure come forme d’arte.

Milanonera ringrazia Mirko Zilahy per la disponibilità

Qui la nostra recensione di Così crudele è la fine.

Cristina Aicardi

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