Il paese di Saimir, intervista a Valerio Varesi.

All’inizio avevamo pensato di prenderci un caffé insieme, Valerio Varesi e io, seduti in uno dei tanti lussuosi caffé nel centro della sua sfolgorante Parma. Ma dopo aver letto l’ultimo romanzo ho pensato che per dissipare il senso di claustrofobia e la cupa malinconia che ne pervade ogni pagina avremmo dovuto incontrarci all’aperto e camminare liberi nello splendore arioso del parco ducale di Maria Luigia d’Austria, fra alberi secolari e opere d’arte.
Il Paese di Saimir non è uno dei soliti, splendidi romanzi  di Valero Varesi. Non ha per protagonista il commissario Soneri che occhieggia fra le righe con la faccia di Luca Barbareschi. Le pagine non sono intrise di acqua di fiume, di fumo e di nebbia.
No, questo è un romanzo di denuncia e, nello stesso tempo, un pezzo di grande giornalismo. Perché ricostruisce, pagina dopo pagina, i meccanismi perversi che portano ingenti ricchezze sui conti occulti di pochi, condannando a una  vita di miseria e di disperazione i tanti disgraziati che rischiano la vita per venire nel nostro Paese e sempre più spesso la perdono lavorando.
E non importa se in Italia vengono per sfuggire alle guerre e alla fame oppure solo per inseguire la facile opulenza mostrata dai programmi televisivi captati dalle antenne paraboliche.Nell’immaginario di chi sfrutta le loro braccia, gli immgrati, specie se clandestini, sono tutti, allo stesso modo, “vuoti a perdere”.Vuoto a perdere è anche Saimir, il protagonista del romanzo di Valerio Varesi.
E’ albanese e ha diciassette anni. Lui è uno di quelli che in Italia vengono per cercare un destino. Non migliore, ma almeno qualunque, con qualche prospettiva per il futuro. Perché nella rassicurante immobilità del suo paesino, cibo e un tetto non mancano.
E’ tutto il resto che non  c’è. Saimir lascia il nord dell’Albania e finisce per ritrovarsi nell’inferno di uno dei tanti cantieri dove si lavora al ribasso per garantire il massimo profitto ai costruttori.
E’ ancora un ragazzino e non ha avuto il tempo di imparare i rudimenti del mestiere, ma i suoi compagni di squadra, albanesi come lui, se ne fregano di quello che sa fare. Nessuno controlla e quando la parete a cui sta lavorando crolla, trascinando con sé l’intero palazzo, loro, incolumi per un colpo di fortuna, si mettono subito il cuore in pace e piuttosto che perdere tempo a cercare il cadavere sotto le macerie, cercano di trarre profitto dalla disgrazia ricattando il costruttore.
Ma Saimir non è morto. E’ sepolto sotto tonnellate di detriti e si tiene aggrappato alla vita in attesa che i compagni arrivino a liberarlo.

Valerio, in questo “noir di ecomafia”, non a caso pubblicato da Edizioni Ambiente, sei  stato più giornalista o più scrittore?
Assolutamente più scrittore. L’approccio è stato quello di chi vuol scrivere un romanzo e non un pezzo giornalistico. Anche se la realtà che passa tutti i giorni sotto gli occhi di un cronista è l’alimento del narratore. Credo, inoltre, che il romanzo oggi arrivi più profondamente alla sensibilità della gente perché trasforma i personaggi e le storie in simbolo mobilitando le emozioni. Tutte cose che riescono con più difficoltà a un reportage.

Come cronista sei mai stato in uno dei tanti cantieri-assassini a vedere in che condizioni si lavora?
Qualche volta mi è capitato. Ma per comprendere le condizioni di vita in un cantiere, mi sono bastati i racconti di mio padre invalido per un incidente sul lavoro. Parlo della fine degli anni  ‘50, ma in questo primo scorcio di millennio, grazie alla criminosa idea liberista, siamo tornati a quei tempi. Si usano le persone facendo leva sui loro bisogni ben sapendo che, statisticamente, stante la situazione in cui operano, qualcuno si ammazzerà o rimarrà invalido. Questo è il vero crimine che passa sotto gli occhi indifferenti di un’Italia senza regole.

Le inchieste di Soneri sono ambientate nella campagna ferrarese, dove  tutti conoscono tutti e ciascuno dovrebbe sentirsi al  sicuro. Eppure i delitti abbondano più delle carpe nel Po. In che misura la cronaca influenza le tue storie?
Nella campagna ferrarese sono ambientate le puntate di Nebbie e delitti‚ ma i miei libri sono saldamente legati a Parma e alla provincia parmense. L’Italia è un’immensa provincia e in provincia accadono i delitti che più connotano il nostro male di vivere. Pensiamo a Cogne, a Erba, a Novi Ligure o, appunto, a Parma. Anche in questo caso la cronaca guida la finzione.

E’ davvero così noir la provincia?
In provincia ci sono dinamiche sociali differenti rispetto alle grandi città dove la violenza si realizza in modo più duro e diretto. I delitti della provincia sono più interessanti proprio perché apparentemente non si ravvisano le cause dirette. Allora, se molto spesso gli omicidi sono la manifestazione della malattia, indagare su un omicidio in provincia vuol dire scavare realmente dentro il malessere di fondo della società.

E Parma? Pensi che sia un caso se proprio nel palazzo Ducale, qua a due passi, ha sede il RIS?
Parma è un punto di vista interessante sulla provincia ricca di quella che è definita la Padania. Non è un caso che qui siano avvenuti fatti di cronaca eclatanti come il delitto Mazza‚ con protagonista la ballerina Katarina Miroslava, scandali finanziari connotati come colossali truffe, quali il crac Parmalat, o omicidi truculenti maturati nell’ambiente della finanza senza scrupoli come il delitto Roveraro.

Il Paese di Saimir è nato come romanzo e poi la cronaca dei fatti ti ha preso la mano oppure è nato come libro-inchiesta e a un certo punto è spuntato fuori lo scrittore?
Nasce fin dall’inizio come storia narrativa. Volevo scrivere un racconto lungo, ma il libro mi è esploso in mano lievitando volta per volta. Forse l’avevo sottopelle e non chiedeva che di uscire. Sarà perché il tema mi è caro per ragioni di disgrazie famigliari. Insomma, per tutto questo, il libro mi è venuto di getto.

Perché a un certo punto del tuo percorso, hai deciso di lasciare la strada comoda e redditizia
della fiction per imboccare quella aspra e, di questi tempi, vagamente pericolante della denuncia sociale?

Io credo che nella parola estetica, presupposto di ogni scrittura narrativa, sia contenuta la parola etica. Credo molto nella letteratura di impegno e penso che qualsiasi scrittore debba sporcarsi le mani‚ prendere posizione. Non stando da una parte o dall’altra di un ipotetico arco costituzionale, ma cercando la verità e tentando di dare una propria rappresentazione del mondo. Il giallo e il noir, così come li intendo io, non prescindono mai da questo. Nei miei romanzi con Soneri, il tema sociale è sempre presente. Nella struttura del giallo è caricata un’altra e superiore motivazione. Non a caso, quello che veniva chiamato “romanzo di genere”, ora viene sempre più spesso chiamato “romanzo sociale”.

E’ stupenda la tua Parma. Nessuno meglio di te sa che l’eleganza e la magnificenza sono cornici inaspettate e, quindi, tanto più inquietanti per i delitti.  Hai mai pensato di ambientare un romanzo nel parco ducale? Magari dalle parti del tempietto dell’Arcadia?
Francamente no, non ci ho mai pensato. A due passi dalla sede dei RIS e dal mio amico colonnello Luciano Garofano, sarebbe quasi uno sberleffo. Parma è una città davvero bella, ma sempre più sull’orlo di tagliare le proprie radici e perdere l’identità che aveva un po’ di tempo addietro. La città di forti passioni, di grandi tradizioni libertarie, di rifiuto di ogni prepotenza e di cultura raffinata è sempre meno rintracciabile nella Parma di oggi. Certo è ancora una bella signora, ingioiellata e piena di paillettes, ma non vorrei che cominciasse a inacidire e a mostrare le amnesie disarmanti di chi rinnega il proprio passato.

So che il colonnello garofano nel parco ci va a correre molto spesso. Pensa se proprio a lui, mentre corre in tuta, capitasse di inciampare in un cadavere!
Ehm sì, in questo caso il colonnello si ritroverebbe a indagare su un caso nel quale sarebbe coinvolto anche come testimone. Proprio come accade gli investigatori di carta: Binda, Duca, Kay Scarpetta, Steve Carella eccetera, le cui strade sembrano lastricate di morti ammazzati. Ma noi speriamo proprio che non succeda, che Luciano Garofano non venga mai confuso, nell’immaginario, con gli eroi della fiction e che continui a dirigere la sua magnifica squadra.

adele marini

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