A tìe solu bramo



Giulio Neri
A tìe solu bramo
Il Maestrale
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È un viaggio a ritroso in luoghi lontani l’uno dall’altro geograficamente, culturalmente e socialmente quello che s’imbocca leggendo A tìe solu bramo, l’ultimo romanzo di Giulio Neri, pubblicato dal prestigioso editore nuorese Il Maestrale. Con una scrittura profonda, elegante come un tango ma anche spietata come un colpo di stiletto, A tìe solu bramo prende inizio dipingendo un paesino del sud della Sardegna, una delle tante bidde in cui il maschio va a caccia di cinghiali e al rientro si ubriaca senza tanti complimenti, mentre la donna si occupa delle quattro mura e spettegola sulla pentola bollente di una qualche presunta rivale, un piccolo grumo di esseri umani, imbruttiti dall’ignoranza, che si ciba di ricci a cucchiaio e biasima il migrante irriconoscente sempre collegato al Wi-Fi pagato dalla collettività.
In questo territorio circospetto, con norme inderogabili che regolano l’ospitalità, Clelia Boero, la Torinese, decide di attendere il momento finale della sua non felice vita. Per l’esperienza dell’addio al mondo terreno Clelia sceglie il luogo di origine del suo amore eterno e condannato con Orlando, figlio di Irma Desogus, sa bagassa de bidda, e di Mahfuz l’egiziano, il coltivatore.
Ma chi è Clelia l’estranea? Clelia la proletaria possedeva un cinema d’avanguardia in Corso Unione Sovietica, a Torino. È stata una rivoluzionaria vetero-brigatista, in guerra con il Sistema Internazionale delle Multinazionali, coerente sostenitrice della scelta radicale e del bagno di sangue, poi ha scelto di riciclarsi nel campo No Global da centro sociale autogestito. Figlia di un falsario attaccato ai soldi, che la ritiene una borghesuccia capace di pontificare dall’alto del trono di ricchezza costruito da papà, Clelia è l’emblema di un’esistenza a metà, di un mondo tramontato, privo di successi e triste come l’amore impossibile verso Orlando Mahfuz. La penna di Neri descrive magistralmente questo scenario lontano dalla sua Sardegna, la realtà continentale rappresentata dalle fabbriche di Mirafiori, dai raduni radicali e dai lanci di molotov in cui Clelia la rossa si è formata prima dell’apertura del cinema Alphaville, il luogo dell’incontro con Orlando.
Perché Orlando Mahfuz, divenuto nel frattempo docente nell’arte dell’imbalsamazione presso l’Università di Bologna, ha un debole per la Juventus e un’incrollabile fede nel Protocollo Boniperti. Tutto ciò lo porta a visitare Torino, in compagnia del figlio Nadir, a varcare la soglia del piccolo cinema situato nel quartiere operaio. Nadir il Prezioso è il frutto dell’amore tra il maestro mummificatore e Raja, corrispondente di guerra e moglie, conosciuta fatalmente in quel piccolo paesino del sud della Sardegna che non ha impiegato troppo tempo a comprendere che i due avrebbero scopato come ricci.
Con la saga della famiglia Mahfuz si apre un terzo importante versante del romanzo, ambientato in un universo di gesti quotidiani, sospeso tra il Greenwich Village di New York e un villaggio di montagna della Siria di Assad. Le pagine sugli orrori e i machiavellismi dietro e dentro il conflitto siriano denotano una conoscenza approfondita del mondo arabo, delle sue abitudini frequenti, delle usanze meno note e del ruolo che l’Islam ricopre realmente nella vita di milioni di persone ma che non assomiglia in nulla all’immagine di questa religione propagandata in Occidente. La velata analisi della geopolitica americana e dell’imperialismo NATO serve a puntare una luce sulla fitna all’interno nella società araba, lo scisma tra la fazione filoccidentale e quella schierata con una tradizione millenaria e irriducibile. Tale scontro si manifesta nelle liti di Raja, la reporter di guerra filoccidentale, e suo cognato Ibrahim, siriano nazionalista e lealista dotato di una magnetica influenza sul Prezioso.
In ogni episodio della parabola del clan Mahfuz aleggia immensa la figura di Clelia Boero, l’Altra, la Bolsce-fica come la definisce sprezzantemente Raja, inamovibile nella mente dei membri della famiglia, ancor più che in quella di Orlando. Una presenza eterna, in donzi momentu, anche in quello della morte, allo stesso modo delle parole del coro da cui prende nome il romanzo, non potho reposare, non posso riposare, come chi è senza amore e lo rimarrà per sempre, come chi vive dentro un ricordo perpetuo che non scomparirà mai.

Thomas Melis

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