Alessandro Robecchi: I miei Tempi nuovi. Intervista

41WTfRlb8WLDa poco in libreria con  I tempi nuovi, sesta avventura di Carlo Monterossi, Alessandro Robecchi ha accettato di fare due chiacchiere con MilanoNera.

Quale è stata la scintilla che ha ispirato I tempi nuovi?
Per una volta, posso dire che il titolo è venuto prima del libro, o insieme… Tutti sappiamo in qualche modo che attraversiamo tempi nuovi, e ognuno li coniuga come può e come sa, e ognuno li attraversa o li subisce a suo modo. C’è una nuova incertezza, un’insicurezza diffusa, alcuni pilastri etici e morali si sfarinano piano piano e ogni personaggio del libro cerca di definire questi tempi nuovi… il sovrintendente Ghezzi a un certo punto dice: “Sono i tempi in cui il ‘perché no?’ sostituisce il ‘perché no’”. Ecco, l’obiettivo era costruire una storia intorno a tutto questo.

Organizzazione, metodi, procedure, permessi, autorizzazioni, burocrazia, sono parole che tornano spesso nel libro. Tu che rapporto hai con loro?
Spesso di insofferenza. Ma non è tutto qui: i tempi nuovi prevedono anche scorciatoie, qualcuno salta la fila, qualcuno dice “girano tanti soldi e sto fuori solo io?”. Tutto ciò che è regola sembra un inutile rallentamento. Nei tempi nuovi la dimensione collettiva è molto rara, tutto è privato, individuale, personale, questo fa in modo che regole e procedure concepite per proteggere tutti sembrino ostacoli.

Ti è mai capitato di dover usare la strategia dell’opossum?
Ah! Non in senso letterale, diciamo. Ma mi capita di lasciar perdere davanti a una provocazione, a una discussione che non porterà da nessuna parte. Fingersi morti è una buona strategia, se non ti va di ingaggiare la battaglia, o se la ritieni già persa, o peggio ancora inutile.

Davvero è sempre più difficile fare le brave persone?
Questo è un elemento molto forte nel libro, una molla dell’intreccio noir. Diciamo che i tempi nuovi ci pongono davanti a un problema di sopravvivenza, di galleggiamento in una situazione in cui gli appigli sicuri scarseggiano, o non sono sicuri come un tempo. Le tentazioni diventano irresistibili, la linea che separa il bene dal male, il giusto dallo sbagliato si fa più sottile. Ti offrono dei soldi per fare qualcosa di non cristallino… beh… perché no?

18582099_1514195978610780_8726152255641210893_nCi sono stati dei “perché no?” nella tua vita? Sfide che non avresti mai pensato di accettare e invece…
Credo che prima o poi un “perché no?” arrivi nella vita di tutti. Non ne ricordo di clamorosi o di particolarmente rischiosi, certo non sono gli stessi “perché no?” che mettono nei guai i miei personaggi, però certo, ogni tanto capita di dirsi: ma insomma, cosa mi impedisce di fare questo? E’ un momento in cui ognuno di noi compie un piccolo strappo alle regole e persino alle proprie convinzioni. In qualche modo è un piccolo atto di ribellione a cose che ci sembrano già disegnate, e succede che noi vogliamo cambiare il disegno.

E dei “ perché no!” ?
Molti di più. Il “perché no!”, col punto esclamativo segna una linea che non si deve superare se si vuole una società civile, se si vogliono tracciare regole condivise. Carlo Monterossi pensa, a un certo punto della storia, che i tempi nuovi sono anche questo: i farabutti dicono in pubblico cose che prima nemmeno osavano pensare in privato. Se si mette davanti a tutto il proprio tornaconto personale, l’egoismo, il “io me la cavo e gli altri si arrangino”, tutto diventerà presto più fosco e cattivo. Poi, ognuno si dà i “perché no!” che crede, ma il “questo no, questo non si fa” appartiene a una sfera etica che può essere elastica, per carità, ma non scomparire del tutto.

C’è una canzone di Dylan per ogni occasione?
La canzone del libro, più volte citata, è Brownsville girl, una lunga ballata che Dylan scrisse insieme a Sam Shepard e che a Carlo sembra dire qualcosa sulla donna che muove tutta la storia, una donna da cui è affascinato ma in un certo senso anche spaventato… Ma certo che sì, Dylan è come Shakespeare, o come la Bibbia, tu troverai sempre una strofa di Dylan che dice qualcosa su una passione, un sentimento, un deragliamento del cuore… meglio di come la direi io, ecco. Ma… i poeti servono a questo, giusto?

Esiste una Katrina o è un tuo sogno proibito?
Ahahah! Katrina, la Mary Poppins di Carlo Monterossi è un mio sogno, sì. Qualcuno che si occupi di te, che ti riempia il frigorifero, che ti eviti questioni pratiche e organizzative… Ovviamente un simile accudimento tracima poi in una specie di senso di protezione… “Signor Carlo deve trovare brava ragazza”… Da qualche parte qualcuno o qualcosa che ti mette davanti la realtà serve… Carlo ha Katrina, un personaggio minore, una caratterista, se vuoi, a cui sono molto affezionato.

Qual è il personaggio che è cresciuto in modo inaspettato nel corso dei 6 libri?
Tutti hanno avuto un loro sviluppo. La serialità non è fare le fotocopie, i personaggi crescono con noi, ma soprattutto ogni volta si trovano di fronte a storie diverse, i loro giudizi, i loro comportamenti cambiano. Carlo è diventato più riflessivo, diciamo che tiene in mano il dossier etico-morale della storia, gli piace osservare le vite degli altri… ma forse a precisarsi di più sono stati Ghezzi e Carella, i miei sbirri, così diversi e così complementari. Ghezzi ha un lato umano, capisce i criminali a cui dà la caccia. Carella ha un sacro fuoco, invece, prende ogni indagine come un fatto personale.

Ti poni dei limiti quando scrivi? Ci sono argomenti di cui non parlerai mai?
Dovrei pensarci… in realtà non mi è mai capitato di trovarmi davanti a qualcosa di cui dico, no, non posso scrivere di questo… Non saprei. Quello che mi interessa, rispettando per quanto si può i canoni del genere, è indagare sulle vite, le motivazioni, le curve che prendono certi destini. C’è davvero qualcosa di non raccontabile? Può darsi, ma finora non l’ho visto.

Esiste un’etica dello scrittore?
Domanda da un milione di dollari. Esiste un’etica dello scrittore come esiste un’etica del cittadino… Ma direi che per lo scrittore comanda il patto con il lettore. L’insincerità, l’artificio, si vedono subito sulla pagina scritta. Io voglio un’onestà del racconto, le personalità dei personaggi, le loro motivazioni, le curvature dei loro caratteri sono decisive per raccontare onestamente una storia. E poi in un giallo, alla fine, si parla del bene e del male, e non sono cose da trattare con leggerezza. In più, aggiungo, c’è sempre un patto con il lettore: ti do una storia che non traballa, solida, coerente, le conclusioni sulle nostre vite, sul mondo, su come vanno le cose, tirale tu.

Sei anche un autore televisivo, hai mai “pettinato” delle storie?
No, ma io faccio una televisione molto diversa, la satira ha altre regole, se ce le ha… Però conosco bene i meccanismi di certa tivù, dove il vero dev’essere più vero del vero, il reale interessa poco, tutto dev’essere esagerato, spesso fino al grottesco. Carlo Monterossi non è un cinico, ma è immerso in quella tivù commerciale del dolore che è la quintessenza del cinismo… questo contrasto rende il personaggio più denso… Carlo contiene del blues, non è contento di sé… Io che c’entro? Io racconto.

Per scrivere ed essere credibili bisogna più guardare nelle vite degli altri o attingere dalla propria?
Le cose della nostra vita entrano in quello che scriviamo in ogni caso, c’è dell’autobiografismo anche nella lista della spesa, non serve mettercene a piene mani… Quel che penso io della vita, del mondo, dei tempi nuovi, verrà fuori in ogni caso. Trovo più interessante costruire vite e situazioni esterne, guardarci dentro. Bisogna essere capaci di non parlare di sé, anche perché di sé si finisce a parlare comunque. Di base, mi interessano più i personaggi che con me avrebbero poco a che fare…

Hai venduto i diritti dei libri perché se ne tragga un film. Perché non una serie?
Sì, il progetto sarebbe di fare un film da ogni libro. La serie ti costringe a tracciare una narrazione orizzontale, mentre un film si compie in se stesso, non sei costretto a lasciare indietro scorie, pezzi non risolti… Non so a che punto siano le cose, si vedrà. Mi diverte che si trasportino le storie scritte in un film, so che non è lo stesso linguaggio, che è un lavoro più collettivo. Vedremo.

Quanto è difficile fare satira in questi “tempi nuovi?”.
La satira ha un linguaggio suo, apparentemente più le cose sono confuse e più prospera. Però non è così facile. La satira colpisce il potere, la prepotenza, rende visibile il paradosso del reale, indica con una risata la storture… oggi il potere è molto sfilacciato e la prepotenza molto diffusa. La satira ha il suo bel da fare, diciamo…

L’editore ti ha già chiesto se stai scrivendo il nuovo Monterossi?
Shhh… ancora no, ma prima o poi chiamerà.

MilanoNera ringrazia Alessandro Robecchi per la disponiblità.
Qui la nostra recensione a I tempi nuovi – Sellerio

Cristina Aicardi

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