Corri uomo corri



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“Aveva la sensazione che qualcosa fosse andato storto da qualche parte. Forse era successo appena la notte scorsa, oppure molto tempo fa. Ma, da qualche parte, all’ingranaggio dell’american way of life era saltato un dente; o magari era proprio questione di cuore. Il cuore che aveva perduto un battito senza più recuperarlo.”.

Siamo negli anni del dopo Kennedy e lo scrittore di colore Chester Himes descrive con queste parole il brivido di consapevolezza da cui è percorso il sergente Brock alle prese con un caso di omicidio plurimo.

A questo punto della narrazione, il lettore è già informato di tutto: nel lindore degli smalti e dell’acciaio inox di una moderna tavola calda della quinta avenue, una belva spietata ha fatto strage e, non sazia, sta braccando un’altra preda. Nei bui sotterranei dei grattacieli, sui marciapiedi affollati di down town, nei night club di Harlem, fin nei più intimi recessi della vita privata della vittima designata…

Senza sosta.

Di giorno e di notte.

La belva è un bianco, trent’anni, occhi di ghiaccio, un ciuffo di capelli biondastri sulla fronte. Poliziotto.

La preda è un nero, sui venti, occhi costantemente descritti con le pupille dilatate dal terrore, il corpo vigoroso e reattivo nella costante ricerca di una via di fuga. Lavapiatti e studente.

Il romanzo si apre con un incalzante incipit di cinquantuno pagine durante le quali non è concessa al lettore alcuna pausa.

Sullo sfondo della metropoli al risveglio – reso con taglio descrittivo iperrealista – l’azione fila ad una velocità folle per mantenere costante l’inquadratura su inseguitore ed inseguito. Walker e Jimmy. Il poliziotto e lo studente. Il bianco e il nero. La belva e la preda.

Ma non si pensi che sia tutto così semplice. Himes sa per esperienza che il mondo è un luogo singolare dove le ragioni del perseguitato sono, contro ogni logica apparente, le più difficili ad essere comprese ed accolte. Sarà colpa di quel battito di cuore perso… Fatto sta che al lettore non è consentito distrarsi. Fino all’epilogo. Vagamente amaro come si conviene alle prove migliori di questo genere letterario.

Himes scrive questo romanzo durante il suo soggiorno francese per la Série noire di Gallimard. Nato nel Missouri (Jefferson City – 1909), appena diciannovenne viene condannato a vent’anni di galera per rapina ed è solo l’ultima di una sfilza di misure persecutorie subite – tra cui l’espulsione dalla Ohio State University… – da inquadrarsi nel clima di tensioni razziali degli anni ’50; così si trasferisce in Francia ed è qui che si realizzano le sue fortune letterarie. Muore in Spagna nel 1984 più o meno dimenticato.

Questo autore appartiene ad una subcultura particolare, quella che coincide con i limiti del ghetto nero piú famoso, Harlem, e si collega alla letteratura della “negritudine”, che aveva in James Baldwin (chi ricorda lo stupendo “Un altro mondo”…) uno dei suoi più risaputi esponenti.

Questa letteratura testimoniava di una lotta di razze come dialettica selvaggia. La stessa avvertibile nel suono aspro e disperato del jazz di quegli anni: non sarà un caso se lo stesso percorso personale ed artistico di Chester Himes fu seguito da numerosi musicisti di colore americani approdati sulla Senna per sottrarsi alla spietatezza del sistema e ai suoi pusher-aguzzini; tra i tanti, Dexter Gordon il cui sax ha gradazioni tonali che ricordano da vicino la scrittura b&w di questo scrittore.

Il titolo. Corri uomo corri è la traduzione letterale dell’originale Run man run. Ebbene, dopo aver letto il romanzo, ciascuno concorderà sul fatto che esso, più che richiamare testualmente un incitamento rivolto da Jimmy a se stesso all’inizio della sua pazzesca avventura, rappresenta un ammonimento per chi si dispone alla lettura perché, dopo le prime righe, sfido chiunque a fermarsi…

paolo donati

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