Figlio di vetro



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Figlio di vetro
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Lo leggiamo a pag. 41 di Figlio di Vetro di Giacomo Cacciatore.
Nel 1977, a Palermo ci sono persone, per le strade, stanno sempre negli stessi posti, a gruppi sparsi, come oggetti semoventi dell’arredo urbano. “E’ come se li avessero piantati in varie zone della città con i piedi dentro a un buco, per fare ombra a un angolo della strada, a una saracinesca aperta o chiusa, a una panchina. Sembrano le palme della villa. Come le palme, non fanno niente: prendono il sole, dondolano al vento e parlano fiacco, quasi frusciassero.” Sono mafiosi, ma non esistono perché la mafia non esiste né esiste la parola. Ma loro sono lì, controllori della strada, di gente, di negozi, di attività e di esistenze. A suo modo, una forma di equilibrio. Anche nell’anima in formazione di Giovanni, figlio di Vincenzo “il Turco” sino a quando non arrivano, in sequenza, la televisione a colori e il film Zombi (al cinema), trasgressioni proibite che però aprono la mente, facendo intravedere luoghi e parole “che – appunto – non esistono”. La forza metaforica delle immagini artificiali, dei colori imperfetti e saturati, aprono al bambino un terzo occhio che sta attendendo chissà da quanto un wow signal. Ed è la forza – non solo metaforica – di un genere (il moderno horror antropofago ufficialmente inaugurato da Romero in un altro anno di svolta, il ’68), in quel periodo più vituperato di oggi ma per fortuna nostra meno modaiolo, che nelle mani di Giacomo Cacciatore si sublima in quintessenza, diventando il tangibile collante di una realistica e “contagiosa” storia di mafia. Dalla televisione (a colori, Starsky e Hutch, Fonzie e le telenovelas) a Zombi il contagio culturale scivola, invisibile e implacabile. L’horror diventa il viatico per un bambino di nove anni che entra all’Astracine e che scopre l’esistenza di un mondo oltre lo schermo dove le teste scoppiano, i morti mangiano i vivi e dopo un po’ tutti si mangiano fra loro. Proprio come al di qua dello schermo, contagio, cannibalismo, homo homini lupus. Perché quel che si vede oltre lo schermo dovrebbe essere mera fantasia? Perché nel 1977 la lotta si trasformava in guerra. Uomini in bianco da una parte che lottavano per isolare il virus e creare gli anticorpi, uomini in nero (Uomini Neri nascosti nell’armadio a muro) dall’altro che spargevano come vili monatti i semi del contagio. Con punte di orrore che hanno segnato per sempre la memoria collettiva della nazione e che hanno, comunque, costretto la mafia a dichiararsi come esistente. Perché il contagio criminale esiste, eccome. Punte di orrore come la strage di Capaci che piomba nelle pagine finali di Figlio di Vetro a ricordarci il terribile prezzo che si paga in guerre del genere. Angolo (lucente) di purissima letteratura e di toccante poesia, Figlio di Vetro ci ricorda ancora una volta l’assioma del grande noir: guardate bene nel buio e definite il Male, guardandolo in faccia. Se esiste, può morire.

danilo arona

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