Gatsby, il rivoluzionario a Teheran

Tenetevi forti: Il grande Gatsby è un romanzo rivoluzionario. E non è una boutade: solo che finché non si prende in mano Leggere Lolita a Teheran di Nazar Afisi (Adelphi) non lo si capisce sino in fondo. Perché nel processo, ridicolo, che gli studenti dell’Università di Teheran, celebrano contro il grande romanzo di Francis Scott Fitzgerald, si coglie quanto un’opera di fantasia possa invece diventare una “cosa vera”, che un gruppo di fanatici (?) musulmani considera un pericolo per la moralità nazionale e la rivoluzione islamica (fragiline, entrambe, verrebbe da pensare). In fondo è consolante: i libri sono da sempre, dai roghi della Biblioteca di Alessandria, le prime vittime degli invasori, delle rivoluzioni, delle contro-rivoluzioni, delle dittature e dei tiranni.

Se fanno qualche paura, una ragione ci sarà. E Nazar Afisi lo spiega benissimo. Come spiega benissimo che cosa ha significato per donne ormai molto avanti sulla via dell’emancipazione essere precipitate in un Medioevo oscuro. E soprattuto stupido.

Solo che non l’ha capita neanche il suo traduttore, Roberto Serrai, che prima afferma che Leggere Lolita a Teheran più che un bel libro è un libro importante. E poi, dimenticando totalmente la lezione della Nafisi, le fa pure il predicozzo politically correct: «Lavorando al libro mi sono posto una domanda, come forse avranno fatto anche altri lettori: possibile che non esista, per usare parole semplici, un musulmano “buono”, oppure, più in generale, un Islam dal volto umano con cui dialogare?». Serrai si risponde “sì” e per questo boccia il romanzo. E con questo dimostra di non aver capito quello che ha tradotto: Azar Nafisi usa questo libro proprio per dire che un romanzo è buono quando è scritto bene non, come pretenderebbero i suoi studenti più estremisti, quando rispecchia le idee politiche del governo in carica e dell’autore, e della morale imposta o diffusa. In Scrivere è vivere (datanews): Nadine Gordimer ricorda una frase di Márquez sulla narrativa impegnata: «Il modo migliore per uno scrittore di servire la rivoluzione è scrivere meglio che può». Con buona pace del dottor Serrai e dei fondamentalisti di tutte le rivoluzioni.

Invece Leggere Lolita a Teheran è un libro bellissimo, ma temo che un uomo possa non apprezzarlo fino in fondo. Io, almeno, non avevo mai letto, pagine così vere su che cosa prova una donna colta e illuminata a dover rinculare nell’angolo, a dover sparire, a doversi rendere invisibile, a sentirsi umiliata per ogni risata, ogni corsa, ogni libero pensiero. Non a caso le protagoniste del romanzo continuano a ripetere che in fondo, per gli uomini iraniani, nonostante il clima oppressivo, le cose vanno bene. E quindi per loro sono incomprensibili gli “isterismi” di queste donne che non vogliono portare il velo, che vogliono camminare libere, viaggiare e lavorare, che non vogliono sposarsi a nove anni e non vogliono che il marito prenda altre mogli, che trovano umilianti i matrimoni a tempo, e disgustosa l’ipocrisia dei religiosi. Ma Azar Nafisi dice molto di più, e questo proprio il suo traduttore non può capirlo: parla della resistenza, che in tutti i luoghi e in tutte le epoche, anche le più oscure, le donne hanno saputo organizzare.

Qui, miracolo, si sopravvive leggendo, si resiste non abbandonando Nabokov e Jane Austen, gustandoli e facendoli propri come, forse, in Occidente non saremmo mai capaci di fare. Scrive la Gordimer (sempre in Scrivere è vivere): «Nessun fatto di cui scriverò o parlerò sarà vero tanto quanto i miei romanzi o racconti». Alla fine, gira gira, gli studenti di Teheran avevano ragione: il Grande Gatsby è davvero pericoloso. Può rendere liberi.

Valeria Palumbo e il suo WW si prendono qualche giorno di meritato riposo. Il prossimo appuntamento, quindi, è per giovedì 30 agosto… e come ogni volta saranno veri DiRottamenti, percorsi inaspettati su territori già battuti.

valeria palumbo

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