Gianni Biondillo: un libro deve lasciare un graffio

Grazie al Noir in Festival la redazione di MilanoNera ha avuto la possibilità di porre qualche domanda a Gianni Biondillo per l’uscita del suo ultimo romanzo Il sapore del sangue, Guanda, che abbiamo recensito qui.

51fNn4Sp8RLNel corso dei romanzi l’ironia di Michele Ferraro si è trasformata in sarcasmo. Sta solo invecchiando, quindi è tagliato fuori dal tempo in cui vive, oppure è il resto del mondo che è impazzito? Insomma, è diventato aceto oppure è un vino pregiato?
Tutte queste cose assieme. Nel senso che rispetto a certi personaggi seriali sempre identici a sé stessi, immutabili nel corso dei secoli dei secoli, fin dal primo romanzo ho deciso che avrei seguito la sorte di Michele Ferraro strada facendo. In “Per cosa si uccide” sua figlia è una bambina che deve ancora andare alle elementari, adesso è un’adolescente. Per me è molto più interessante rimettere in gioco i personaggi rispetto alla certezza di avere sempre i soliti risultati, ottenuti ogni volta con la stessa cassetta degli attrezzi e i medesimi meccanismi. Dal punto di vista delle vendite è molto più furbo scrivere lo stesso libro, però è più onesto sfidarsi, cambiare la lingua e la scrittura. “Il sapore del sangue” sia per scrittura che per architettura è diverso dal precedente “L’incanto delle sirene” che, a sua volta, era già diverso da “Nelle mani di Dio”. Ferraro sta invecchiando, ha già dei capelli bianchi in testa, inizia a fare qualche conto con sé stesso e gli sta mancando anche una sorta di allegria spensierata che aveva magari 15 anni fa. Prima era distante dalla sua gioventù che era diversa da quella di adesso e ora ha una vicinanza con la sua vecchiaia che inizia a pesare.
Non credo che sia mai stato un vino raffinato e barricato, è un po’ un Tavernello. Magari il Tavernello invecchiando diventa buonissimo, noi non lo sappiamo, nessuno ha mai provato a farlo invecchiare. [ride]

Immagina la scena. Tu e Michele Ferraro al tavolo di un bar, di cosa parlereste?
Ferraro e io abbiamo poche cose in comune. Non è un grande lettore di libri, c’è la ex moglie che ogni tanto lo sprona e anche la figlia, però non ha delle grandi passioni letterarie. Dato che in gioventù ha fatto il musicista ha una buona conoscenza della musica, quindi credo che parleremmo soprattutto di quella.
Abbiamo dei gusti musicali abbastanza analoghi, questo glielo riconosco.
In Italia non se ne può più di parlare di politica, quindi lo eviterei. Non è sui social, non ha una vita sociale particolare e non credo abbia molti followers.
Credo che parleremmo sostanzialmente di musica e non berremmo aceto.
Però faremmo qualche mangiata, anche se lui non è un grande mangiatore, lo è più il suo amico Mimmo.
Insomma, Ferraro è una persona ordinaria, non è straordinaria.

FB_IMG_1546379976317 (1)Curiosità, La bambina pugile da dove salta fuori? C’è un riferimento preciso?
Molte cose in questo romanzo sono reali. Personaggi costruiti su persone vere che non è come dire “tratto da una storia vera”, però è proprio così. Come scrittore tendo a raccontare quello che conosco. Sasà è un personaggio ispirato da un ragazzo che conosco e che non vedo ormai da anni, che ora sarà un uomo che potrebbe essere in carcere, oppure morto o chissà dove. La ragazzina che fa boxe, la palestra e anche l’istruttore esistono realmente, non sono un’invenzione. L’allenatore si chiama davvero Renato, io gli ho cambiato il cognome, però è stato lui ad avere l’idea di costruire una palestra in cui c’è anche una biblioteca.
I ragazzi vanno a studiare o vanno a fare boxe, lui vorrebbe che studino e facciano boxe nello stesso posto. Quindi ha allestito questa biblioteca in cui c’è un pianoforte e ogni tanto organizza dei concerti. È un posto stranissimo ed è talmente bello che mi ci sono affezionato al punto da inserirlo nel libro.

La letteratura è solo intrattenimento oppure c’è qualcosa di più?
Se tu parti dicendo io adesso lancerò questo messaggio all’umanità e un po’ come diceva Marcel Proust: i libri con un messaggio sembrano un regalo con ancora attaccato il prezzo. Si tratta di qualcosa che non funziona. Tu hai una storia da raccontare e la racconti. Ho capito che la scrittura è una attività formativa per lo scrittore; non sa cosa sta facendo poi, retrospettivamente, si accorge di ciò che ha realizzato. Capita molto spesso che siano i lettori a dirmi qual è il messaggio, il contenuto, il significato.
Io non lo so prima. Scrivere è un’indagine che lo scrittore fa con sé stesso.
Ecco perché la letteratura di genere quando è fatta bene ha un valore. Anche se – diciamoci la verità – il 90 percento è spazzatura, è scritta male, con i piedi, convinti che tutto debba essere trama e meccanismi narrativi, ma mancano psicologia, ricerca linguistica e molti altri aspetti che conferiscono valore.
A Mestre c’è stato un tale che mi ha detto: “per leggere il tuo libro ho dovuto usare il vocabolario”.
Ho risposto che mi sembrava una buona notizia.
Oltre alle solite 500 parole potrai usarne 3 o 4 in più ed è sicuramente una buona cosa.
Quindi la letteratura è intrattenimento se intendiamo la capacità di intrattenere il tuo tempo in qualcosa di piacevole e ci sta, ma se è solo intrattenimento puro e semplice è una perdita di tempo.
Sono dell’idea che un libro deve lasciarti un graffio. Alla fine, quando lo chiudi, non devi essere pacificato con te stesso. Puoi esserti divertito, aver pianto o riso, cercato la verità o tutto quello che vuoi ma, alla fine, ti deve restare la stessa sensazione lasciata da graffi fastidiosi.

Quanto pesano vendetta e redenzione Ne Il sapore del sangue?
Tutto sta nell’esergo, potremmo leggere solo quello e chiudere il libro.
Isaac Hayes, un musicista afro americano degli anni ’70, nella strepitosa Out of Ghetto dice, traducendo, “io ti ho portato fuori dal ghetto, ma non posso portare fuori il ghetto che hai dentro”.
Ecco, questa è una condizione umana, sociologica che chi l’ha vissuta comprende.
Uno può ragionare di ghetti mentali non solo nel senso più urbanistico del termine. Io sono anche cresciuto in un ghetto vero, che è quello che racconto nei miei romanzi, però quella sensazione che ho la vivo ancora oggi che sono qui all’hotel Barchetta di Como, oppure il mese scorso quando sono stato invitato ad Avignone e Tokio e in tanti bei posti.
Scrivo libri, vedo cose bellissime ma dentro di me rimane sempre quel ghetto. Se non riesci a uscirne, a estrometterlo da te stesso è parte della tua identità che puoi anche rigurgitare.
È una cosa complicata da spiegare, me ne rendo conto, però è quello che succede a Sasà e sua sorella Nunzia. Sono cresciuti nella stessa condizione socio economica ma ognuno cerca la sua emancipazione con percorsi completamente differenti. Sasà attraverso una strada più veloce, soldi, puttane e cocaina, Nunzia invece attraverso la dignità del lavoro, la normalità, la famiglia, il figlio che studia e va all’università ma tutti e due si tengono dentro questo male oscuro. Non so se esista una redenzione in senso stretto, perché quella che lo è per Nunzia è una maledizione per Sasà.

Questo Ghetto che hai dentro può essere – nel bene e nel male – uno sprone per superare la propria condizione?
Ho un senso di rivalsa. La forza scorre potente in me. Penso di essere stato un adolescente davvero antipatico. Nel senso che io prendevo la linea 57 da Quarto Oggiaro e ci mettevo un’ora e passa per arrivare in centro per andare a studiare. Ero incazzato con tutti. Ero il primo della mia famiglia che aveva superato la terza media, i miei non avevano manco quella, addirittura ho deciso di andare alle superiori e all’università ed ero incazzato con i miei compagni che venivano a scuola con il macchinone, che avevano la casa al lago, in montagna e al mare. Allora la mia rivalsa stava nei libri, nel vomitare in faccia la cultura che loro non avevano.
No, non dovevo essere molto simpatico. Avevo sempre questo atteggiamento di sfida, ero sempre con i guantoni pronto a “bulleggiare”, un atteggiamento che adottavo per difendermi.
Mi porto dentro quel ghetto che ti dicevo.
Sarei stato una persona migliore se fossi cresciuto in altro luogo? Sarei stato una persona diversa non miglior o peggiore.
Non auguro ad altri di vivere condizioni socio economiche complicate. L’intelligenza viene distribuita equamente, il problema è che in alcuni casi chi ha altrettante qualità ha meno opportunità per dimostrarlo ed è questa disparità che mi infastidisce.

Ferraro è vicino alla pensione e mostra segni di insofferenza verso il lavoro da “sbirro”, ma tu sei stanco del tuo personaggio?
La mia fortuna sta nel fatto che io non sono uno scrittore seriale. Di Michele Ferraro scrivo quando ho una storia che lo riguarda. Quello precedente era di tre anni prima. Non ho la necessità e un contratto che prevedono che io scriva quattro libri l’anno, come fanno molti miei colleghi con i personaggi seriali.
Ferraro cambia nel corso degli anni, non è mai lo stesso. Quando mi pare e piace racconto cose differenti, in modo diverso.
Quindi finchè non ho una storia, non la racconto. Scrivo di altro, di viaggi, di quello che mi viene voglia di scrivere. Non sono stufo, perché poi lui è molto duttile. Ne Il sapore del sangue compare a pagina cinquanta, non è nemmeno il protagonista principale. Ferraro mi serve se devo raccontare una storia con un certo sguardo. Se devo raccontare un altro tipo di storia, con un altro tipo di sguardo, non mi interessa, non lo uso. Gli voglio un gran bene ma lui fa la sua vita, io la mia.

FB_IMG_1546379976317Prima dicevi “sono stato in tanti bei posti” ma sei stato anche in tanti posti difficili. Vai spesso in Africa e quanto quel “ghetto” assomiglia a quello di Quarto Oggiaro? Quanto quella realtà entra – se entra – nei tuoi romanzi?
Non avrei potuto scrivere “I materiali del killer” se non avessi fatto quei viaggi nei campi profughi del Darfur, in Etiopia, in Eritrea, nel Ciad. I personaggi e gli scenari di quel romanzo, con cui vinsi il premio Scerbanenco, non sarebbero stati raccontati senza quei viaggi. Quella storia ce l’avevo in testa da molti anni ma non riuscivo a scriverla perché non avevo un’esperienza diretta per il materiale umano e il paesaggio.
Da un certo punto di vista sono stato un ladro e ci ho guadagnato, ma sai cosa diceva Picasso: “Il mediocre cita, il genio ruba” [Ride].
Le stesse esperienze sono presenti anche ne L’incanto delle sirene. La fuga di Aisha, la bambina che scappa dalla guerra in Libia è scaturita – appunto – da questi incontri, da queste realtà che ho conosciuto.
Sono esperienze che segnano dal punto di vista umano. Quando torni a casa, ad esempio, ogni volta che ti lavi i denti la prima cosa che fai è chiudere il rubinetto. In alcuni posti per avere dell’acqua devi fare sei chilometri a piedi con in testa una tanica. Io li ho fatti e ho visto, ma una sola volta, loro lo fanno tutti i giorni.
Sono dieci anni che faccio avanti e indietro da quei posti. Se vedi e vivi quei luoghi, capisci perché uno può decidere di rischiare la sua vita su una barchetta in mezzo al mare. Perché ti lasci alle spalle dei posti che sono da incubo.
Alcuni sono anche dei posti meravigliosi. Ho visto anche un’Africa molto dinamica e città che si stanno dando da fare. Poi ci sono un sacco di ragazzi, sono paesi giovani e quindi vinceranno loro, la demografia vince sempre. Lo racconto tutte le volte, l’età media italiana è quarantasei anni, l’età media egiziana – che è uno dei paesi più vecchi dell’Africa – è ventisei.
Ma dove andiamo, stiamo qui a fare i muri ma dove andiamo. La Nigeria nel 2050 avrà più abitanti di tutta l’Unione Europea.
Ma dove stiamo andando? Non abbiamo capito niente.

MilanoNera ringrazia Gianni Biondillo e l’organizzazione del Noir In Festival per la disponibilità

Mirko Giacchetti

Potrebbero interessarti anche...