Un posto sbagliato per morire

Hans Tuzzi


Hans Tuzzi
Un posto sbagliato per morire
Bollati Boringhieri
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Hans Tuzzi ci racconta la sua città con la consueta maestria di chi sa allocare, sul compositoio, ogni singolo carattere, particolare simbolo o preciso spazio. Siamo all’inizio degli anni ottanta. Lo stimato e anziano architetto Barambani viene trovato morto in una strada di periferia, che poco ha a che vedere con la Milano da bere che impazza nei locali del centro storico. Nessun segno di colluttazione che possa far pensare a una sfortunata aggressione. Chi lo ha ucciso si trovava al suo fianco e godeva della confidenza della vittima. Ma cosa faceva un uomo come lui, alle quattro della mattina, in un luogo dove nessuno fra gli amici, e i nemici, immaginerebbe di vederlo passeggiare? Già, i suoi amici. Molti. Il primo fra tutti l’architetto Bozzoli, il socio di una vita. Si conoscono da prima della guerra. Uno grande matita, l’altro abile comunicatore. Due caratteri opposti, che si compensavano. La fedele governante, da trent’anni al suo servizio. E i nemici, chi non ne ha a quei livelli. Un politico, che in passato favorì l’avanzamento di un progetto firmato da un nipote, un ex praticante titolare di uno studio concorrente, un vecchio affarista, arricchito grazie alla costruzione di case popolari, ora fondatore di una scuola per le scienze economiche. Infine, due ex mogli, una delle quali gli ha donato un figlio di cui, per età, potrebbe essere il nonno. Tanto il rapporto con il bimbo lo riempiva di soddisfazione, quanto quello con la donna continuava a essere complicato, nonostante la separazione. Frapponendo i chiaroscuri dei raffinati appartamenti meneghini alle immagini agli umori della squallida periferia cittadina, l’autore consente ai lettori di godere delle continue sfaccettature di una città dove la nebbia si attende anche quando splende il sole. Allora eccoci a seguire l’azione del Nucleo Anticrimine, invischiata fra le innumerevoli Vie e Corsi in cui si dipana la storia. Attenzione: il rischio è quello di fare la stessa fine, perdendosi tra i dedali della toponomastica milanese. Per fortuna, periodicamente, si ritorna presso la Questura di Via Fatebenefratelli; per seguire il punto della situazione messo sul tavolo dai questurini, che non hanno orari per il lavoro così come accade alla vita di periferia, fra anacronistici bianchini ordinati all’alba e sfilate di marchette notturne mentre le famiglie riposano. La scelta e la disposizione delle parole nei dialoghi è molto ricercata, minuziosa. A volte, eccessivamente patinata, incipriata, quasi che l’autore voglia donare un’aura di aristocrazia letteraria ai personaggi che fatica a sposarsi con il vissuto quotidiano. Un romanzo che non avvinghia alla sedia il lettore che ricerca un procedimento vivace nel pentagramma della storia, ma ben si adatta a chi privilegia i ritmi di un andante, moderatamente lento, che consente di riflettere con gli stessi tempi del commissario Melis. Perché la vita è fatta anche, e soprattutto, di lunghe riunioni di lavoro, oltreché di pistolettate. Bang!

Francesco Ravioli

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