Heine Bakkeide – L’assoluzione



Heine Bakkeide
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“poiché da uomo malvagio,mai tu otterrai mercede del bene, ma buon uomo potrà si renderti ben gradito di fama.”
Così recita il canto CCXXIII degli Hàvamàl, il carme di Odino, appartenente alla raccolta di Edda Poetica, fondamenta della letteratura norvegese, cui sicuramente ha tratto ispirazione Heine Bakkeide, moderno alfiere di lettere norreno, nel delineare i tratti caratteriali dei protagonisti de L’assoluzione,  suo ultimo lavoro.
Thorkild Askeite, ex poliziotto dell’elite investigativa, che esibisce sul volto le cicatrici delle sue battaglie, non ricordo di scorribande a bordo delle temute drakkar, ma bensì fermate obbligate sulla strada di una comune ricerca di autodistruzione; si evince una presa di distanze dagli stereotipi dell’investigatore tormentato, con alcol e droga sostituiti da psicofarmaci spaventosamente normalizzanti, alleggerendo Thorklid dall’obbligatorietà della vittoria, proteggendolo con una spessa corazza di umana mortalità.
L’incarico, occuparsi di ricerche e analisi di tutto il materiale inerente la reale sparizione di due ragazze minorenni, utile alla stesura del prossimo libro dell’acclamata Milla Lind, scrittrice in forte crisi creativa, che con la sua promiscuità segna profondamente il percorso dei personaggi maschili, mettendone a nudo le debolezze, e ricordando l’importante influenza della donna nella tradizione scandinava.
Apparentemente nulla di più semplice, ma tra menzogne, morti sospette, demoni del passato che riappaiono inesorabili, e forse l’ombra di un serial killer, cui il profilo potrebbe essere costruito dal lettore pagina dopo pagina, un lavoro di ordinaria tranquillità, si trasforma in una pericolosa caccia all’ultimo respiro.
L’indagine predilige le tecniche tradizionali, con un supporto ambiguo da parte delle forze di polizia, molto spesso meravigliate al solo concetto di morte, e impreparate al suo contrasto, come rappresentazione della tipica ingenuità dell’essere umano. Il frequente incrocio tra sguardi inquisitori e sguardi in equilibrio tra colpevolezza e testimonianza, permette meglio di interiorizzare angoscia e disperazione, trasformando continuamente i fronti di appartenenza, fronte del giusto e fronte del sbagliato, confondendone talvolta i confini, ma ribadendone l’immanenza.
Un viaggio alla ricerca delle verità, con una descrizione immite delle ambientazioni, sul baratro di una agorafobia necessaria, dove l’isolamento di una natura primordiale non permette di fuggire dal concetto di tragedia, amplificandone invece l’ineluttabilità.
A fine lettura resta comunque il dubbio che nulla sia realmente finito, restando imprigionati in una consapevole ciclicità del dolore.

Paco Prama

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