“Conosce gli inuit commissario?” – Martello scosse la testa. – “Sono un popolo che vive al Polo Nord e la loro lingua è così precisa nel definire la realtà che li circonda che hanno cinquanta parole diverse per descrivere con esattezza tutte le sfumature di quello che per noi è semplicemente bianco”. È Sergio Asciuti a parlare, un ex detenuto, finito in prigione per tentato omicidio. In realtà, Asciuti ha veramente poco del delinquente comune, ancora meno del delinquente consumato. Tanto è vero che in carcere si è salvato solo perché un delinquente vero – Aldo Bacciani – ha deciso di mettersi dalla sua parte. Asciuti sta parlando con il commissario Martello, investigatore molto capace con l’unico neo di essere ormai prossimo alla pensione.
Le loro strade si sono incrociate perché Bacciani ha offerto 20.000 euro ad Asciuti – cifra considerevole per uno che è marchiato da un passato di carcere e ha pochi agganci per rifarsi una vita. In cambio deve ritrovare sua figlia Grazia, misteriosamente scomparsa. È lo stesso caso che il questore, credendolo senza importanza, ha affidato al commissario. Parte quindi un’indagine parallela, che i due uomini conducono separatamente, ma incontrandosi sempre più spesso man mano che si avvicinano alla soluzione.
La realtà però – nella finzione letteraria, ma sicuramente non solo in quella – è sempre molto più intricata di quello che ci si aspetta e per questo, troppo spesso, le parole a disposizione non bastano a descriverla. Bisognerebbe poter ricorrere, veramente, alle mille sfaccettature della stessa parola – come i cinquanta nomi del bianco a cui allude il titolo – per entrare nel dettaglio e riuscire a districarsi dal groviglio. Invece in questo groviglio Asciuti e Martello, più o meno loro malgrado, restano impigliati: è come il mulinello di un fiume che non ti lascia scampo, ti trascina verso il fondo, inesorabilmente. Così Franco Limardi, l’autore del bel noir edito Marsilio, lascia un certo amaro in bocca al lettore, dopo averlo incantato con una prosa notevole e con poetiche immagini di fiocchi di neve, che nascondono una crudezza quasi raccapricciante. D’altra parte, questa è la vita: bellezza ed orrore che si mescolano senza soluzione di continuità.
Quello che mi ha colpito, in questo romanzo, è la sensazione che non ci sia una via d’uscita. La criminalità ha la meglio sempre e comunque. È una sensazione che effettivamente volevi suscitare?
Le organizzazioni criminali hanno, oggettivamente, un enorme potere economico e quindi politico, in Italia come in molti altri paesi del mondo, va da sé che la lotta che viene condotta contro queste organizzazioni è faticosa, ardua e talvolta appare senza speranza. Però quello che m’interessava, era un discorso più ampio, sulle possibilità di una persona di potersi battere con se stessa e con la vita; intendo dire che i miei personaggi sono calati in una realtà molto concreta, fatta anche di malavita e corruzione, ma la loro lotta si misura anche con l’esistenza e come diceva Italo Svevo “La vita è una malattia mortale che non conosce cure”.
Mi pare anche che questo tipo di sensazione sia una sorta di leit motiv nei noir di ambientazione italiana. In che misura un romanzo è lo specchio della società?
Credo che in questi anni in cui il genere “noir” ha avuto successo, lo si sia caricato di responsabilità superiori alle sue possibilità e volontà. La società è raccontata da tutti i tipi di letteratura, di genere come “alta”: c’è descrizione della realtà, della società, in un libro di poesie come nelle opere di Antonio Moresco, nel teatro “civile” di Paolini o Celestini, come nei romanzi di tanti colleghi “noiristi”. Questa responsabilità se da una parte può aver impegnato gli autori ad un lavoro di documentazione, per esempio, dall’altra ha dato vita, credo, anche a clichè e luoghi comuni.
Da dove prendi spunto per i tuoi personaggi?
Mi diverto a dire che uno che scrive è un ladro o, se vogliamo usare qualcosa di meno urtante, è una spugna. I miei personaggi nascono dalle mie idee, prima di tutto, cioè so come voglio un personaggio, conosco il suo carattere, immagino addirittura, di quelli principali, cosa hanno fatto, come sono vissuti prima delle vicende raccontate nel romanzo; poi li “rivesto” con le cose che trovo per strada, al lavoro, ogni giorno: Qualcuno, anche tra gli amici, non sa di avermi prestato la sua faccia o i suoi tic verbali per costruire questo o quel carattere.
Quali sono i progetti per il futuro di scrittore, nel noir, ma non solo in quello?
Ne ho addirittura tre: uno, quello più immediato è un progetto a cui sto lavorando da un anno ed è un romanzo ambientato alla fine dell’Ottocento; un secondo è, diciamo per comodità, ancora un noir e l’ultimo dovrebbe essere un romanzo “mainstream” ma per questo ho ancora bisogno di prendere le giuste distanza da quello che voglio raccontare.
Ho letto che continui anche la professione di insegnante. Com’è per i tuoi allievi avere un prof. che scrive libri?
Non so come sia per i miei studenti avere un insegnante come me; con loro non parlo della mia attività di scrittura, penso sempre che in qualche modo eserciterei su di loro una pressione, in una certa misura li costringerei a leggermi e la cosa mi dà assolutamente fastidio. Preferisco che, magari incuriositi, leggano qualche autore classico o, comunque, si mettano a leggere.
Qual è stata la tua più grande soddisfazione come scrittore?
Al momento che il mio precedente romanzo “Anche una sola lacrima” sia stato tradotto, abbia avuto un riconoscimento anche fuori dal mio Paese.