Incontro con Anthony Neil Smith

La cornice è quella del festival Dal Mississippi al Po, iniziativa che fa dialogare la musica del Delta con la letteratura noir attraverso una fitta serie di incontri tra musicisti e scrittori. La città, Piacenza, ha dato modo di apprezzare. Anche perché quest’anno tra gli autori dal Minnesota è arrivato Anthony Neil Smith, autentico figlio del grande fiume americano, padre di quel bad cop che corrisponde al nome di Billy Lafitte. Il suo Yellow Medicine (edito da Meridiano Zero) negli States lo ha definitivamente consacrato tra i migliori scrittori della nuova generazione (insieme a Victor Gischler, tanto per citare un suo caro amico), grazie a una scrittura tesa, bollente come la pece, martellante come fosse uscita dalle dita del primo James Ellroy, e a una storia che tra fughe, tradimenti e impossibilità di redenzione ci espone un catalogo esistenziale che ci fa chiedere se davvero facciamo tutti parte della medesima commedia umana.

Billy Lafitte è un solitario, una mina vagante per la stessa polizia. Qual è la parte della sua personalità che meglio esce nel romanzo?

«La lealtà. Può suonare strano. Ma è così. La lealtà verso i suoi amici, verso chi gli è più caro. È inusuale per uno come lui. Cacciato dalla famiglia, sopportato dal cognato sceriffo, inserito in un ambiente che porta a privilegiare innanzitutto il proprio io. Invece alla fonte di ogni comportamento di Billy c’è un interrogativo: lo sto facendo per me o per le persone che amo?»

Quando ha iniziato a scrivere la storia, Billy si è da subito rivelato così come è sceso sulla pagina o ha col tempo rivelato una parte oscura di cui lei non era a conoscenza?

«La sua oscurità mi era perfettamente chiara quando ho incominciato a scriverlo, ma è logico che poi, pagina dopo pagina, Billy abbia assunto un profilo di rabbia e di sfida dell’autorità tutto suo, tanto che io stesso mi sono detto: “Devo cercare di limitare un po’ questa sua cattiveria”. Stava andando per la tangente con una velocità che stupiva pure me.»

Quanto c’è di lei in lui?

«Il fatto di non avere messo radici in un solo luogo ci accomuna, ma Billy è un tipo più egoista e individualista di me e non potrebbe essere altrimenti, visto che gli creo attorno situazioni molto forti da cui deve cercare di restare in piedi in maniera realista. Personalità e carattere da bastardo sono la corazza necessaria per sopravvivere in quell’ambiente.»

È più coraggioso di lei?

«Oh caspita… sì, se devo essere onesto è più coraggioso di me. Io vivo una vita più comoda della sua. Io insegno, lui è in strada.»

Inoltre è un gran appassionato di psychobilly e Drew, un’amica che gli sta molto a cuore, canta in una band psychobilly. Come mai ha scelto questo genere musicale per la colonna sonora di Yellow Medicine?

«Perché mi piace. Ascolto gruppi come Guana Batz, Social Distortion. Nel Minnesota lo psychobilly non gode di grande fama, ma ci sono delle band veramente ottime. Anche il rockabilly mi piace. Quando scrivo ho una mia colonna sonora che mi accompagna e avevo bisogno di una musica che mi aiutasse a scrivere profilo e anima di autentici zombie e situazioni horror.»

Ma cosa può  davvero offrire la musica a una crime story?

«La musica aiuta a iniettare un ritmo nella storia o perlomeno a mantenere alto o basso il ritmo che un autore ha già nelle sue corde. Io amo i Van Halen, i Mötley Crüe, certi loro video hanno una drammatizzazione da paura, e allora se voglio una storia di fucili e sparatorie in piena regola so dove andare a parare. La musica è uno strumento fantastico, puoi scegliere il country, il blues, la techno, perfino la musica classica. Devi solo fare chiarezza con te stesso prima di metterti al lavoro. Ti serve qualcosa di contemplativo o che scuota le viscere? Pensiamo a cosa la musica dà al cinema in termini di drama e come riesca a essere per il film una storia parallela.»

Tra i personaggi inquietanti del libro ci sono anche Ginny, l’ex moglie di Billy, e suo padre, abituati a parlare citando in continuazione passi della Bibbia. Un modo come dire: attenzione, il pericolo si svela anche senza azioni necessariamente esplicite e roboanti?

«La Bibbia in sé non può essere pericolosa. Io ho avuto esperienze religiose quando vivevo coi miei genitori, che però mi hanno dato la possibilità di suonare in chiesa e insegnato un certo amore per la musica gospel e i canti sacri. Piuttosto, è pericoloso prendere un libro vecchio di duemila anni, che è stato tradotto in altre culture e ritradotto non dall’originale, ma dalle successive traduzioni, e usare il risultato finale per guidare la propria vita. Questo sì mi fa sentire a disagio.»

Yellow Medicine si racconta in prima persona. È Billy Lafitte che ci spiega come sono andate le cose. Perché questa scelta stilistica?

«La prima persona è il veicolo migliore per sentire la voce interiore ed esprimerla. Per me non è un moloch, ho usato e userò ancora la terza persona, ma se vuoi esprimere la compassione, il senso di solitudine, la rabbia, l’amore così come il tuo protagonista li prova allora la prima persona è la chiave.»

E perché  la narrazione al passato? Si usa pensare al presente storico come a un mezzo più vicino al racconto cinematografico e la storia raccontata in Yellow Medicine è già di per sé un film sulla pagina.

«Perché è più naturale. È la posizione naturale degli storyteller perché riporta a una tradizione orale. Il presente crea un legame maggiore con la persona a cui è offerta la storia, ma appunto è il linguaggio del cinema. Quando leggo voglio entrare in un altro tempo.»

Quali autori hanno contribuito alla sua formazione di autore?

«James Ellroy, almeno quello di White Jazz e L.A. Confidential, James Crumley. Amo Chester Himes, scrittore straordinario, capace di scrivere di tutto, con una tavolozza di colori infinita di stili.»

Quanto conta lo stile nel noir?

«Il 99%. White Jazz ha uno stile insuperabile. Lo stile non è il vestito, è l’anima, l’impronta. È il mood, lo stato d’animo con cui si esprime lo scrittore. Anche nella musica. La grandezza di un cantante o di una band nell’affrontare una cover si valuta dallo stile con cui fa suo un pezzo altrui. È lo stile che mi ha detto che avrei voluto diventare uno scrittore. Tornando alla questione prima-terza persona. Proprio per una questione di stile, se avessi scritto questa storia in terza persona non sarebbe uscito lo stesso libro e lo stesso Billy. Chiaro, lo stile deve essere sostanza altrimenti non ci siamo, produci solo spazzatura.»

Cosa sono state le esperienze col Mississippi Review e in Plots With Guns?

«Quando scrivevo per il Mississippi Review ero uno studente e Frederick Barthelme, che lo diresse per tanto tempo, si rivelò un autentico talent scout, dando voce ad autori sconosciuti e aiutando il noir ad avere dignità e rispetto anche da noi. Lo so, può sembrare strano, nella terra di Chandler, Hammett e di una tradizione letteraria ultrasecolare, ma il noir, la crime e la mystery story non hanno mica goduto dello stesso rispetto di altre forme letterarie, più amate dai circoli accademici. Barthelme contribuì a dare legittimità al genere. Plots With Guns, insieme a Victor (Gischler, nda), è stato un momento divertente con le nostre prime storie nere.»

Da ormai più  di un decennio in Italia il noir autoctono gode di grande successo, tanto che la critica ormai lo considera il vero veicolo letterario per comprendere al meglio la realtà  contemporanea, le sue logiche sociali, insomma quello che i tedeschi esprimono con zeitgeist, lo spirito del tempo. Mi sembra di capire che negli States non sia proprio così.

«No, anche da noi la situazione è cambiata. Uno scrittore come Ellroy è riuscito a imporre anche un genere, non solo se stesso. La reputazione del noir e del crime ha fatto passi da gigante, ha ottenuto perfino il rispetto delle Università dove sono gli stessi studenti, ad esempio, a imporne lo studio. Oggi Lehane, Pelecanos, tanto per citare due nomi, sono subentrati nell’attenzione della gente che vuole capire meglio la giungla umana, i suoi problemi sociali, il razzismo, la chiusura mentale, le cattive relazioni.»

corrado ori tanzi

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