Intervista a Alfredo Fiorillo, tra i finalisti del Premio Caligari con Respiri

locandinaIn occasione del Premio Caligari 2018 indetto dal Noir in Festival e dopo la visione di Respiri, una delle sei pellicole in finale, la redazione di Milano Nera ha avuto la possibilità di incontrare il regista Alfredo Fiorillo e rivolgergli qualche domanda.

Forse non tutti sanno che “fare un film” non è solo piazzare la macchina da presa e aspettare che gli attori recitino la propria parte. C’è molto di più ma, al di fuori dell’organizzazione del set, il piano regia e molte altre attività pratiche cosa significa per te “fare un film”?
Mi piace molto la tua domanda perché la risposta è complessa. In breve, spero di essere chiaro. Allora voglio andare a fondo e farti una premessa: “Avevo 12 anni e tornavo da scuola, iniziavo a sentire la musica che ascoltava mio fratello (mi ha plagiato a livello musicale, anche se ora gli do una pista!!!) e questo mi rendeva un emarginato (musicalmente parlando) perché ascoltavo Cure, Clash, Sonic Youth, Joy Division, Madness, Jesus and Mary Chain ,Pixies (PIXIES MY BIG BIG LOVE FOREVER) e tanti altri, difficilmente condivisibili con i miei coetanei (parliamo del 1980-81-82, puoi immaginare quanto prima di internet erano realtà musicali sconosciute al 90% degli italiani, ma non solo). Premessa finita. Sembro andare fuori tema ma non è così perché quanto ti ho appena descritto diventava da emarginazione musicale un ascolto assoluto, creativo e narrativo, cioè tornavo a casa mettevo su i vinili, indossavo le cuffie e per ore ascoltavo quella musica (mio fratello si avvelenava perché solcavo i suoi amati dischi ascoltandoli anche 50 volte di seguito, a volte una canzone che mi faceva “viaggiare” per ore, entravo in trance e immaginavo). Così iniziavo a vedere storie, a immaginare mondi, a consolidare emozioni e filmare mentalmente questo turbinio di immagini. Giorno dopo giorno, come un alienato, però, iniziavo a incanalare queste emozioni in immagini reali e in seguito in immagini filmiche che si succedevano. Permettimi una seconda premessa: “In quegli stessi anni, mio fratello musicologo alternativo, era anche cinefilo esaurito. Quindi io dopo la musica alienante che ascoltavo, passavo alla visione dei film ancora più alienanti. Si la sera era il momento di Bunuel (su tutti per me, perché mi ha spinto a fare il regista: Un cane andaluso e l’Angelo sterminatore), T.H. Dreyer, Von Stroheim, Murnau, Losey, Griffith, Ford, fratelli Marx, Fellini, Kubrick, Wilder, Spielberg, ecc. ecc., tanta roba per un bambino di 11 anni, forse troppa roba.”. Bene, dopo tutto questo mangia mangia di musica, film e immaginazione è nata la “visualizzazione”. Tu dirai: “quante parole al vento per rispondere alla mia domanda così semplice?!”. Forse, ma il senso di quello che sto dicendo è questo: TANTI STIMOLI, UDITIVI E MUSICALI, TANTI MOMENTI DEDICATI A IMMAGINARE LIBERAMENTE, TANTI MOMENTI DEDICATI A FAR CONVERGERE LE EMOZIONI, TANTI MOMENTI DEDICATI A TRADURRE LE EMOZIONI, TANTI MOMENTI DEDICATI A RENDERE FIGURATIVE LE EMOZIONI, TANTI MOMENTI DEDICATI A RENDERE LE EMOZIONI FIGURATIVE UN SUSSEGUIRSI DI IMMAGINI, TANTI MOMENTI DEDICATI A RENDERE UNA STORIA COMPIUTA IL SUSSEGUIRSI DELLE IMMAGINI. Ebbene qui finisce la prima fase, per cui ti dico “fare un film” non è solo piazzare la macchina da presa, ma avere sviluppato la capacità di “inquadrare le proprie emozioni e averle dato un senso”. Da qui in poi nasce, l’ossessione: voglio raccontare queste emozioni. Passaggio successivo. Decido in età più maura che il momento di mettermi alla prova (ho 26 anni), è appena morto mio padre e mi ritrovo qualche soldo in eredità. Invece di investire in nell’acquisto di una casetta spendo una bella somma per girare un corto (follemente fatto in 35 mm e in 15 giorni di set, con 50 persone operative), forse troppo ambizioso. Però sai che cosa è successo? La cosa più importante della mia vita (anzi oggi è superata da Ginevra Luna – mia figlia), mi sono spalmato, sfracassato, spappolato con quello che io definisco il passaggio più complicato e devastante per un regista filmico: TROVARTI FACCIA A FACCIA CON LA TRASFIGURAZIONE TRA CIO’ CHE VEDE LA TUA MENTE E CIO’ CHE I MEZZI REALI (camera, obiettivi, luci, spazio, attori, scenografia, movimento, costi e tempi, ecc.) RIESCONO VERAMENTE A TRADURRE. ECCO CHE TI ACCORGI DEL TRAUMA. MA L’IMMAGINE È TUTTA DIVERSA DA COME LA IMMAGINAVO! ECCO CHE INIZIO A IMPARARE A GESTIRE LO SPAZIO ASTRATTO DELLA MIA IMMAGINAZIONE PLASMANDOLO CON LA CONOSCENZA DELLA RESA DI UN MEZZO E DI TUTTI I SUOI ELEMENTI CHE LO COMPONGONO. ECCO CHE IMPARO A FARE DELLE SCELTE. ECCO CHE CAPISCO LA DIFFERENZA DEGLI STILI. ECCO CHE DECIDO DI FARE CINEMA (non mettere qualcosa e qualcuno davanti a un obiettivo, oggi addirittura facendolo con lo smarthphone – non è una critica – evviva gli smarthphone!!! – ma un’analisi del linguaggio filmico e della sua complessità, se crediamo ancora che possa essere un segno espressivo capace di produrre arte). CAPISCI QUANTO È DIFFICILE E COMPLICATO, LABIRINTICO, DOLOROSO E FRUSTRANTE PORTARE UN’IMMAGINE MENTALE IN UN QUADRO REALE FATTO DI TANTI ELEMENTI CHE DEVI GOVERNARE (immagina un pittore o uno scultore o un poeta: lui sceglie ogni elemento o segno linguistico – colore, materia, parola – non dipende da nessuno!). IL REGISTA DIPENDE DAGLI ALTRI. IL REGISTA DEVE TROVARE ALTRI CHE INTERPRETINO LA SUA IMMAGINE MENTALE. IL REGISTA DEVE GOVERNARE L’ESPRESSIVITA’ DEGLI ALTRI. IL REGISTA DEVE FARE I CONTI CON QUALCOSA CHE LA SUA MENTE VEDE E CON UNA TRASPOSIZIONE OGGETTIVA “COMUNE”. Tosto no? Un bel casino? Allora chiedo io a te, la vedi la differenza tra chi questa trasposizione “visionaria” – intesa non come follia, ma semplicemente e letteralmente come visione – la elabora a fondo e chi invece porta una qualsiasi oggetto, emozione, spazio, suono e che ne so in un’immagine? Io la vedo questa differenza, io credo in questa differenza, io ho maturato questo differenza, io voglio questa differenza. Quando insegno regia ai miei studenti dico solo una cosa e voglio che loro applichino: “IMPARATE A SAPER TRASFORMARE UN’IMMAGINE MENTALE IN UN’IMMAGINE FILMICA. IMPARATE A CODIFICARE LE VOSTRE SCELTE E ATTRAVERSO QUESTE CONTROLLARE E INDIRIZZARE LA VOSTRA VISIONE IN QUALCOSA CHE FONDE TANTI E TROPPI ELEMENTI. QUANDO SENTIRETE, NEL BENE E NEL MALE CHE AVRETE FATTO QUESTO, IO CREDO UMILMENTE CHE VI SARETE ESPRESSI ATTRAVERSO IL LINGUAGGIO FILMICO… FORSE IN QUEL MOMENTO SARETE REGISTI E MAGARI ARTISTI. Forse capirete che il cinema vi farà soffrire, perché quando (se mai fortunatamente succederà) vi esprimerete liberamente tutti vi giudicheranno e penseranno cosa era giusto fare (saranno allenatori di calcio come qualsiasi professionista allenatore oggi è, sottovalutando quanto studio, conoscenza e impegno ci sia stato nel fare anche una cosa apparentemente ludica. Saranno tutti così bravi da dirvi cosa va o non va nella vostra opera. Chi giudica sa sempre cosa era meglio fare, ma in vita sua non l’ha mai fatto! Mi chiedo perché se in fondo è così bravo!!!). FORSE IN QUEL MOMENTO ALLORA, COME DICI TU, CAPIRETE COSA VUOL DIRE “FARE UN FILM”! E cioè prendere un’emozione, dominarla, tradurla, codificarla, concretizzarla, condividerla, difenderla, offenderla, realizzarla – ma spesso anche non poterla mai realizzare – fino a che ti rendi conto che è uscito da te. “Fare un film” vuol dire esprimersi, fare un film vuol dire FARE UN FILM NON UN QUADRETTO ESSENZIALE DI CONTENUTI E IMMAGINI DA DIVULGARE!!!

E quale significato artistico ha avuto per te fare Respiri?
Respiri, contro tutto e tutti, per me è un film che vive, vive di verità, verità di dedicare un anno al montaggio video e un anno al montaggio audio. Respiri per me è una vera ricerca emozionale e fisica nel riuscire a trasmettere un senso percettivo del dolore non tanto nella comprensione quanto nella fisicità. RESPIRI PER ME È UNA TENTATIVO DI USARE L’IMMAGINE COME FISICITA’.

È possibile convivere con il dolore, esiste una via d’uscita o si rischia di diventare il Minotauro al centro del labirinto?
ALFREDO: Il dolore per me è la massima percezione di un sentimento, un irrazionale stato emotivo perché non puoi governarlo, o almeno nella prima fase finché non lo elabori attraverso più stadi. Però a me interessava il primo stadio, cioè quello irrazionale e violento, quello che ti può umiliare, disintegrare, non darti una via d’uscita se non sei pronto ad alzare quel muro che la difesa elaborativa di una sofferenza non ha il tempo di governare. Allora mi chiedo, dove una mente, dove un pensiero cosciente, dove l’animalità, dove la socialità, dove la coscienza (unici ad averla) possono schiacciare il senso della vita, che poi paradossalmente è cosi effimero e non potrebbe permettersi questo tipo di sofferenza… perché così, nonostante l’identificazione e autocelebrazione a essere gli “esseri” più evoluti e perduranti, siamo un anello debole della catena evolutiva… ma non possiamo permettercelo. ALLORA MI CHIEDO, CONOSCIAMO IL DOLORE? CONOSCIAMO I SENTIMENTI? CONOSCIAMO VERAMENTE NOI STESSI? CONOSCIAMO I NOSTRI LIMITI?

Ci sono stati dei motivi precisi che ti hanno spinto alla scelta di un cast di attori più noto sul piccolo schermo?
Devo dire che Alessio Boni è stata una scommessa vincente. Anche grazie alla sua voglia di mettersi in gioco e ad accettare un completo ribaltamento nella recitazione seguendo un percorso comune con me nell’annullare qualsiasi tentativo di prevedibilità. Onestamente, si è fidato di me, anche se ero un esordiente, buttandosi un’avventura molto rischiosa (comunque ripagata anche da una candidatura ai Nastri 2018) e in scelte registiche affatto scontate. Per quanto riguarda gli altri attori, non credo siano volti noti al piccolo schermo, se non forse la Grimaldi (per la quale vale lo stesso discorso fatto su Boni). Se vedi, la Trevisani (la bimba) l’ho selezionata tra 1000 bambine conosciute personalmente in circa 1 anno di casting. Calabrese, Capolicchio e Vukotic sono grandi attori dalla grande esperienza cinematografica. In particolare se pensi alla Vukotic, lei ha recitato con i più grandi registi di sempre. Questi attori inoltre hanno dimostrato un vero interesse per la sceneggiatura e la voglia di sostenere con grande passione il progetto.

Argento, Fulci, Bava, Martino e molti altri registi hanno diretto alcune pellicole fondamentali tra gli anni ’60 e ’70. Qual è la situazione del cinema indipendente oggi ed esiste qualche legame con i maestri del passato?
Purtroppo quel tipo di cinema non esiste più. Quel tipo di rischio e passione sfrenata di fare un cinema personale, anche se di genere, oggi non lo corre quasi più nessuno. Mettere in gioco molto di sé stessi, in tutti i sensi, per portare avanti un progetto indipendente non mi sembra un qualcosa che sia in auge oggi nel nostro paese (discorso simile nella musica, letteratura e in genere nell’arte). Sicuramente il cinema non è aiutato nel modo giusto e spesso, troppo spesso, si cerca e si dirotta verso un mercato di richiesta e offerta troppo semplicistico. Credo che, rispetto agli anni e gli autori che hai citato, manchi la giusta consapevolezza e la profonda volontà di rompere alcuni meccanismi e sfidarli apertamente (magari insieme) per dare spazio a una maggiore libertà espressiva. Spero che tutto questo cambi presto, come in Europa e nel resto del mondo già avviene, e si apra anche in Italia una “nuova e florida” stagione di cinema indipendente. Perché è un vero peccato che un cinema di cui siamo stati i capofila, e che tutto il mondo ci invidia, oggi non sia preso nuovamente ad esempio e come spinta nel nostro paese per una nuova “primavera” cinematografica italiana. Credo che manchi un po’ di coraggio e che ogni tanto ci scordiamo il vero significato della parola CINEMA intesa come arte, o quanto meno linguaggio espressivo complesso, e non solo entertainment.

Milano Nera consiglia la visione di Respiri e ringrazia Alfredo Fiorillo per le sue risposte.

Mirko Giacchetti

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