Intervista a Giorgio Ballario – Le nebbie di Massaua

71GYeljkD8LI bambini che, nell’82, collezionavano le figurine dell’Italia ‘Mundial’, si trovarono di fronte a un’anomalia che li lasciava perplessi. C’era infatti la figurina di un calciatore azzurro che, nelle note imparate a memoria, recitava così: Gentile, Claudio. Difensore, Juventus. Nato il: 27 settembre, 1953. A: Tripoli (Libia).
I nostri genitori lo chiamavano scherzosamente Gheddafi mentre lui strappava la maglia a Zico, noi piccoli invece non capivamo che c’era di più. Era una delle tantissime testimonianze viventi di cosa fu il colonialismo italiano in Africa a partire da fine ottocento fino agli anni ‘60/’70: Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia. La memoria generale però – quella che è rimasta, almeno – è dedicata oggi a un periodo particolare, molto breve se vogliamo rispetto al contesto, vale a dire l’imperialismo fascista degli anni ’30.
È un’idea originale, a mio avviso, quella di Giorgio Ballario, giallista con la passione per la Storia, di fondarvi l’ambientazione per una sua serie noir con protagonista il Maggiore dei Reali Carabinieri Aldo Morosini, valoroso uomo di legge dalle spiccate doti umane.

Giorgio, ho appena terminato di leggere Le nebbie di Massaua e, recensendolo (per MilanoNera,nda) ho scritto che il tuo personaggio, il maggiore Morosini, assomiglia per molti tratti a un Montalbano di altra epoca, anche se solo per l’ostinazione e l’umanità che gli pennelli addosso,compresi i suoi collaboratori stretti (vedi recensione, nda). Te l’hanno già detto, e ho colto almeno in parte la somiglianza caratteriale? Solo quella, peraltro, perché Morosini ha davvero vita propria.
No, a dir la verità l’accostamento con Montalbano è per me del tutto nuovo. E gradito, perché è un personaggio letterario che apprezzo molto. Però al di là dell’ostinazione e dell’umanità che sottolinei, non vedo molti altri punti di contatto. Montalbano è in linea di massima un ribelle individualista post-sessantottino, Morosini – per epoca, formazione e anche per l’uniforme che indossa, quella dei Reali Carabinieri – è sostanzialmente un uomo d’ordine. Il che non significa che accetti supinamente le decisioni dall’alto, che spesso gli sembrano insensate o ingiuste, ma sarebbe stato difficile immaginare un ufficiale dei carabinieri degli anni Trenta con lo spirito contestatario.

L’ambientazione di questa serie è dovuta anche alla tua passione per la Storia (di cui avete un
illustre docente in Piemonte, il prof. Barbero che io adoro). Mi domando, ricordando Montanelli
che andò laggiù a quei tempi e che disse degli italiani che sono “un popolo senza memoria”, non hai
ritenuto mai rischioso il filone storico, con le belle citazioni di nomi e fatti realmente esistiti tral’altro, per un pubblico così descritto? Voglio dire, non hai mai temuto di sopravvalutare il pubblico medio?
Dai contatti che ho avuto ho l’impressione che gli affezionati lettori del maggiore Morosini siano tutt’altro che sprovveduti, abbiano anzi un certo interesse per la storia e per la memoria, magari anche solo a livello familiare: non sai quante volte qualcuno mi confida di aver avuto un nonno, un lontano zio o comunque qualche parente che è stato in Africa, che ha fatto la guerra e ha vissuto laggiù per qualche anno. E poi gli italiani hanno la memoria corta anche perché così gliel’hanno fatta diventare, basti pensare alle poche righe che al fenomeno coloniale (durato nel complesso oltre sessant’anni) sono dedicate nei libri della scuola dell’obbligo. E ancora, anticipando in parte la risposta alla domanda successiva, da noi c’è un tabù diciamo pure “ideologico” che nella letteratura di altri Paesi ex colonialisti non c’è stato.

IMG-20170810-WA0038A proposito dell’ambientazione storica, il fascismo in Africa è un terreno spinoso: tante potenziali ‘mine’ di opinioni da dribblare per non prendere posizioni politiche scomode e far sì che l’Eritrea del ’38 fosse solo uno sfondo come un altro per un noir. L’hai fatto molto bene, per di più. Non è stato difficile rimanere totalmente neutrale in tal senso?
Sono dell’idea che se si scrive un romanzo storico, giallo o meno, oltre a dover acquisire una certa conoscenza del periodo e della vita quotidiana che ti appresti a descrivere, occorre anche lasciare da parte il tuo habitus da uomo del XXI secolo. Nel mio caso parliamo di fatti di un’ottantina di anni fa, per certi versi può essere più facile, per altri più difficile. Ma se uno dovesse ambientare un romanzo nell’antica Roma o nel Medioevo, sarebbe impensabile far atteggiare il proprio personaggio a militante dei diritti umani di fronte a fenomeni come la schiavitù o la servitù della gleba. E sarebbe anche ridicolo. Questo per dire che nei miei romanzi – questo è il quarto della serie coloniale – ho sempre cercato di far muovere Morosini e gli altri personaggi come uomini e donne del loro tempo, non come figure contemporanee proiettate nel passato, così come accade in certi vecchi film americani.

Da giornalista che scrive narrativa – quindi due modi di raccontare fondamentalmente diversi – che difficoltà hai trovato all’inizio della tua carriera di scrittore, se ne hai trovate, nel conciliare le tue due anime ‘pennaiole’?
All’inizio sì. Abituato a confinare la narrazione di un fatto in uno spazio predefinito – 40-50 righe – mi riusciva difficile abbandonarmi a descrizioni ambientali, a dialoghi lunghi, a pagine nelle quali lasciar galoppare la fantasia. Per forma mentis ero più avvezzo a togliere che non ad aggiungere. Il che, dal mio punto di vista, per un romanzo giallo è comunque un bene, perché non amo quei libroni da un tanto al chilo, dove sembra che l’obiettivo dell’autore sia arrivare a scrivere almeno 600 pagine. O quanto meno bisogna saperlo fare: se sei Don Winslow lo puoi fare senza annoiare il lettore; in altri casi, invece, sarebbe opportuno sfoltire. Parere personale, ovviamente. Per quanto mi riguarda la lunghezza ideale di un romanzo giallo/noir va dalle 250 alle 300 pagine.

Sei fondatore del collettivo di scrittori torinesi Torinoir, ben conosciuto dagli appassionati della letteratura ‘crime’ italiana. Magari è ancora presto per dirlo, ma so che a settembre – se non erro – darete vita a una manifestazione letteraria che vi sta molto a cuore. Vuoi anticiparci qualcosa di curioso e stuzzicante?
Sì, ormai è ufficiale: dal 13 al 16 settembre a Bardonecchia, in Alta Val Susa, Torinoir organizza la prima edizione del festival Montagne in Noir. Saranno quattro giorni intensi di incontri con autori italiani e stranieri, tavole rotonde alle quali parteciperanno anche addetti ai lavori dell’editoria (editori, agenti letterari, curatori di collane, editor), una mostra fotografica, aperitivi letterari, incontri nelle scuole e un mercatino di libri. Ti faccio qualche nome, senza far torto a nessuno: Antonio Manzini, Valerio Varesi, il francese Xavier-Marie Bonnot, Franco Forte, Margherita Oggero, Giulio Leoni e altri ancora… E naturalmente ci saranno tutti gli undici aderenti a Torinoir. A breve il sito dell’evento sarà online e chiunque potrà conoscere il programma del festival.

Ultima domanda: quand’è che mi segnali al tuo giornale come eccelso intervistatore di scrittori? Scherzo, ti ringrazio a nome mio e di MilanoNera per questo bel dialogo, e appuntamento per tutti a Bardonecchia, segnatevi la data.
Fra tagli del personale, accorpamenti redazionali e riduzione dei bilanci mi sa che caschi male… Però se vuoi posso procurarti una collaborazione – aggratis – al sito di Torinoir: www.torinoir.it. Grazie per l’intervista e grazie per lo spazio concesso da MilanoNera, che rimane uno dei primi esempi di aggregazione fra scrittori e una pietra miliare nel mondo della letteratura noir.

MilanoNera ringrazia Giorgio Ballario per la disponibilità.
Qui la nostra recensione a Le nebbie di Massaua

Dario Villasanta

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