Scrivere thriller è una vera e propria sfida. Intervista a Romano De Marco

Da pochi giorni sei in libreria con il tuo nuovo libro, Il cacciatore di anime, Piemme. Passo dopo passo ho l’impressione che tu ti stia allontanando dal “poliziottesco” per avvicinarti sempre di più al thriller di matrice anglosassone. Sbaglio?In realtà al momento mi sto orientando su un doppio binario, alternando Thriller e Noir metropolitano, anche per non annoiare i lettori. In questo secondo genere (per intenderci quello della mia serie Nero a Milano) certi richiami al poliziottesco, grande amore mai ripudiato, tornano spesso ad affacciarsi in capitoli d’azione che scrivo con molto divertimento.

Cosa ti affascina nel Thriller?
Un buon Thriller (e non do affatto per scontato che i miei lo siano, mi limito a sperarlo) è dannatamente difficile da scrivere. È come un meccanismo ad orologeria fatto di tante piccole parti e devono essere tutte perfettamente coordinate fra loro per far sì che l’insieme funzioni. Scrivere un Thriller per me è una vera e propria sfida e richiede molta più concentrazione riguardo al noir che, viceversa, mi assorbe di più dal punto di vista emotivo perché è un genere nel quale provo a parlare anche di ciò che mi angoscia nella realtà. Ecco, quello che mi affascina del Thriller è questa complessità estrema che non sempre viene percepita da chi legge.

Perché secondo te autori e lettori sono così tanto attratti dai serial killer?
Ti cito Raul Montanari, mio amico e maestro, che a questa domanda ha dato una risposta che mi trova d’accordo al cento per cento: L’attrazione che proviamo per i serial killer è certamente lo sfogo proiettivo delle nostre pulsioni violente (loro uccidono per conto nostro) o dell’aspirazione a infrangere i limiti in cui sentiamo rinchiusa la nostra vita, ma sorge anche da una identificazione fra perdenti, dal riconoscimento che il loro scacco (inevitabile) è anche il nostro.

Il libro ha un’ambientazione splendida che tu sei riuscito a rendere magnificamente. Perché hai scelto Peccioli come sfondo alla tua storia?
Ho conosciuto Peccioli nel 2016 e mi ha subito conquistato. È un luogo magico dove arte, cultura, territorio, vengono valorizzati dall’amministrazione comunale con un modello che dovrebbe essere fonte d’ispirazione a livello nazionale. E poi ci abitano e ci lavorano persone splendide. Avevo in mente da tempo una storia ambientata in un piccolo paese dove un ex poliziotto aveva deciso di rifugiarsi cambiando identità per sfuggire al passato. La scelta è stata naturale, in Peccioli ho trovato una ambientazione perfetta per quel racconto.

Non è la prima volta che ambienti un libro in un piccolo centro ( A casa del diavolo, di cui è appena uscita una nuova edizione, ndr.) e non in grandi città, quali sono le difficoltà nel costruire un intreccio complesso e adattarlo a una piccola realtà urbana?
In questo caso è stato tutto semplice perché la storia era nata con questo intento. Rispetto alla città c’è un respiro, una metrica diversa, uno sguardo più concentrato sui particolari, sulle suggestioni del contesto. Occorre conoscere a fondo un luogo per renderlo vivo e credibile ai lettori. A Peccioli, oramai, sono di casa, quindi non ho avuto problemi particolari.

Come è nato Mauro Rambaldi, capitano dei carabinieri solitario e un po’ cinico?
Pur essendo il protagonista è stato, paradossalmente, l’ultimo personaggio su cui ho lavorato durante la stesura. Il suo carattere, la sua psicologia, si sono delineate nel corso della scrittura e alla fine devo dire di esserne soddisfatto. Mauro Rambaldi è un uomo d’azione, in carriera, investigatore capace destinato a un ruolo di eccellenza presso il comando generale dei carabinieri a Roma. Si ritrova, controvoglia, a dover risolvere un ultimo caso di omicidio, in provincia di Pisa, prima di partire per la capitale. Ci resterà invischiato a più livelli. Sperimenterà, per la prima volta il fallimento e scoprirà anche l’amore vero.

Nel libro hai costruito e caratterizzato degli splendidi comprimari, sbaglio o hai dedicato ai personaggi secondari maggiore cura che nei libri precedenti?
Forse sì, ma è una conseguenza dell’ambientazione. In un piccolo paese (Peccioli ha 5.000 abitanti) è normale soffermarsi sulla psicologia e i segreti di chi ci abita. Tutti conoscono tutti ed era giusto che anche il lettore potesse sentirsi coinvolto in quest’atmosfera.

Ci sono deliziose parti di dialoghi in toscano, ti ha aiutato qualcuno per rendere al meglio la parlata?
Io ho un po’ improvvisato poi, in fase di revisione, sono stato aiutato dalle straordinarie ragazze della Fondazione Peccioli, che mi hanno contestato qualche espressione più tipica della provincia di Firenze che di quella di Pisa. Devo dire che pur seguendo quasi tutte le loro indicazioni, qualche battuta l’ho lasciata com’era, spero non me ne vogliano. Comunque se ne accorgeranno solo i Pisani e i Fiorentini…

Da cosa parti per la creazione di un personaggio?
Dalla realtà. Da un tratto somatico, una caratteristica del carattere, una aspirazione, una fobia, qualcosa che appartiene a me stesso o a persone che ho conosciuto. Come diceva Robert L. Stevenson, è impossibile creare un personaggio dal nulla.

Come scegli i nomi dei personaggi? Stavo pensando a Luigi d’Eramo,  ho cercato e ho scoperto che è un politico abruzzese leghista.
In genere li scelgo pensando all’aspetto fisico del personaggio. A volte utilizzo nomi di amici e colleghi per fare un omaggio. I carabinieri di Peccioli hanno i nomi dei miei colleghi d’ufficio (speriamo non mi querelino). Mauro Rambaldi ha il nome di un mio amico (e scrittore) e il cognome di una amica Bolognese. Mi è capitato due volte (la prima in IO LA TROVERO’ e la seconda ne IL CACCIATORE DI ANIME) che alcuni nomi completamente inventati fossero, in realtà, di persone esistenti. Luigi D’Eramo, scrittore citato in quest’ultimo romanzo, è un politico abruzzese ma ti assicuro che non ne avevo mai sentito parlare prima che qualcuno me lo facesse notare.

Credo sia il tuo libro con maggiore ironia e sarcasmo, come sta cambiando la tua scrittura?
Credo sia dovuto al fatto che sto invecchiando. Questo, in generale, ti porta a prendere una certa distanza da tutto e l’ironia fa parte del processo. Sto diventando un vecchietto burlone…

Se dico che questo è il libro in cui ti ho sentito più “libero” di lasciarti andare alla scrittura, sbaglio?
Posso dirti che, libro dopo libro, continuo a studiare, a impegnarmi a collaborare con professionisti della scrittura per cercare di rendere il mio modo di scrivere sempre più accettabile, diretto, asciugandolo da tutto ciò che è superfluo e scontato. Se hai notato un cambiamento positivo vuol dire che i miei sforzi non sono vani.

Pur essendo un thriller con un’indagine serrata ne Il cacciatore di anime tornano temi che sempre caratterizzano i tuoi libri: il rapporto con i genitori, con i padri in particolare, il senso di colpa, la solitudine, e le gabbie da cui fuggire…
Come dicevo prima, nel thriller la “realtà” ha meno spazio, ma se vuoi rendere i personaggi credibili, se vuoi che scatti l’empatia con il lettore, devi per forza indagare un po’ nella loro anima e tirare fuori quello che li angoscia, che li fa soffrire, che li mette in difficoltà. Anche ciò che riesce a renderli felici. In questo romanzo, nonostante le apparenze (e l’incipit che a molti non andrà giù…) c’è molta più speranza e ottimismo che in altre mie cose.

C’è una frase che mi ha colpito: “ i libri lo scaldavano al fuoco della consapevolezza” .Quali sono i libri che hanno formato la tua?
Kafka, Pontiggia, Borges, Calvino, Buzzati, Chekov. Ma anche Montanari, Carraro, Sciascia, Simenon. Troppi, davvero. E ovviamente i fumetti dei super eroi!!! Quelli hanno un posto speciale nella mia formazione culturale.

E’ aumentata la tua consapevolezza di scrittore?
Primo: non mi sento uno scrittore, ma un narratore di medio cabotaggio. Secondo: Consapevolezza sì ma solo dei miei limiti.

Dici anche che il narcisismo è tipico degli scrittori. Ovviamente si scrive per essere letti, ma pensi che qualcuno vada oltre il semplice desiderio di essere apprezzato come autore?
Caspita, che domanda! Devo dire che per me scrivere è tutta una questione di disperata richiesta d’amore. Non credo ad altre motivazioni, perlomeno io non riesco a vederne. Forse i grandi della letteratura avevano, hanno visioni più ampie, perseguono mete più nobili. Ma è un mondo al quale non appartengo, io faccio parte di un’altra realtà, quella della narrativa di genere. Che, per inciso, chiamo anche “il mondo dello spettacolo dei poveracci”.

Parlando dei poliziotti, dei mindhunter, dici: l’avversario come sempre era la morte. Qual è l’avversario per uno scrittore?
Penso sia la presunzione, l’auto indulgenza, la mancanza di umiltà.

In che modo la pandemia interferirà sulla narrativa? Sarà possibile scrivere facendo finta che non sia successo?
Non lo so, di certo posso dirti che io non scriverò mai un romanzo ambientato in questo periodo. E trovo assurdo che in tanti abbiano scritto o stiano scrivendo le loro cronache dalla quarantena. È un’esperienza che abbiamo vissuto tutti, con sacrificio, per quale motivo dovremmo sorbirci il resoconto di qualcun altro? Ma dico, siamo impazziti? È il solito banale colossale errore di pensare che ciò che ha importanza e rilievo per noi stessi debba averlo anche per altri. Il muro contro il quale si infrangono le aspirazioni del novanta per cento degli esordienti.

Cosa pensi delle presentazioni via web? Valida e comoda alternativa o solo un ripiego temporaneo?
La seconda che hai detto, anche se ne ho fatte e continuerò a farne in mancanza di meglio. Diciamo che già sono molto scettico nei confronti dell’utilità delle presentazioni tradizionali (anche se mi piacciono tanto perché mi sento al centro dell’attenzione…) figuriamoci di quelle virtuali… Qualcuno potrà dire che ci sono autori che hanno fatto la loro fortuna sul modo di presentarsi al pubblico, ed è vero. Ma parliamo di eccezioni che confermano la regola.

MilanoNera ringrazia Romano De Marco per la disponibilità.
Qui il link alla nostra recensione a Il cacciatore di anime.

Cristina Aicardi

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