Intervista a Stefania Parmeggiani

Cover_Notte-di-silvia-piattoStefania Parmeggiani è giornalista presso la redazione culturale di Repubblica, dove si occupa, fra l’altro, di editoria e cultura digitale.
In questi giorni è uscito La notte di Silvia, la sua prima fatica più propriamente “letteraria”, libro dolente e drammatico che tratta di vite sbagliate.

Stefania, nella postfazione al tuo libro scrivi che, non appena hai conosciuto la storia di Silvia, nella tua mente si è formata la convinzione di doverla mettere nero su bianco (… La sua storia mi era entrata dentro…). Quali sono le ragioni che ti hanno portato ad una tale decisione?
Vidi la foto di Silvia su un quotidiano pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Era stata uccisa a sangue freddo. Mi accorsi, per la prima volta, che il mondo in cui ero cresciuta, la riviera romagnola degli anni novanta, non era “normale”: le notti senza fine, la musica sempre accesa, le droghe sintetiche, la cocaina, l’alcol… Qualcuno, nascosto nell’ombra, tirava le fila di quell’immenso lunapark. Anni dopo, quando decisi di scrivere un libro, ripensai alla storia di Silvia. Raccontandola avrei potuto descrivere quel qualcosa che allora avevo solo intuito: avrei potuto parlare dei fiumi di cocaina che da Milano scendevano fino alla Riviera romagnola, delle infiltrazioni mafiose nel nord, della prima grande ondata migratoria che visse l’Italia, delle donne trafficate, della guerra civile in Albania, dei rischi a cui condanniamo gli invisibili.

La notte di Silvia, un titolo che ha anche un significato metaforico?
Silvia è sparita un giorno del 1997 in Albania a bordo di una Mercedes nera ed è ricomparsa cadavere in Italia il 2 gennaio 1999. Per due anni ha vissuto nel nostro Paese da invisibile, avvolta dal buio, “protetta” da una organizzazione criminale che ha tirato le fila della sua esistenza come se fossero i fili di una marionetta. Non ha mai potuto vivere alla luce del sole, a questo allude il titolo, oltre che – ma qui non c’è nulla di metaforico – all’ultima notte della sua esistenza, quella che è scivolata via tra l’alberghetto di Riccione dove è stata prelevata all’alba e l’asfalto dove qualcuno ha premuto il grilletto.

La notte di Silvia è, come abbiamo detto, un libro che si ispira a una vicenda di vita vissuta. Quanto c’è di reale negli altri protagonisti del romanzo?
Tutti i personaggi del romanzo sono reali, anche quelli che occupano solo poche righe. Ho trovato traccia della loro esistenza nelle carte dei processi, nelle cronache del tempo, nelle indagini delle forze dell’ordine, nelle testimonianze raccolte. Erano descritti con poche parole, precise e asettiche, quelle che si usano nelle aule dei tribunali o sui giornali. Per me non era sufficiente: con quelle parole non riuscivo a spiegare perché quelle persone avessero sempre scelto di fare la cosa sbagliata. Ho cominciato a interrogarli. Li vedevo muoversi sulla scena del crimine, cercavo di capire che cosa avessero provato. Quali pensieri? Quali emozioni? Ho lasciato che la fantasia prendesse il sopravvento sulla cronaca, ho dato loro la mia voce ed è per questo che ho scelto di chiamarli solo con il nome o con lo pseudonimo con cui erano conosciuti. Il cognome mai perché alla fine sono diventati qualcosa di molto diverso da quello che sono stati nella realtà: sono diventati i personaggi di un romanzo.

Anche la figura del magistrato, del quale peraltro non apprendiamo quasi nulla, ha una notevole rilevanza nel tuo libro. Come ti è venuta l’idea di creare un personaggio praticamente solo descrivendone l’atteggiamento mentale e la strategia di fine psicologo che applica nelle sue indagini?
Nella realtà le indagini non si sono svolte in quel modo: non si è arrivati alla fine tramite un solo interrogatorio. Se avessi voluto scrivere un poliziesco non avrei mai potuto fare quella scelta narrativa. Ma io non ero interessata all’azione. Volevo capire che cosa era scattato nella mente dei protagonisti, mettere a nudo le fragilità delle persone coinvolte, spiegare le regole di un mondo nascosto, le dinamiche deviate di una relazione di coppia, dei rapporti di potere, del senso dell’onore. Ho quindi dato vita al “mio magistrato”, un uomo pieno di dubbi che scava nella mente del ragazzo che ha di fronte perché non può accontentarsi di un colpevole da trascinare in un’aula di tribunale. Vuole qualcosa di più: dare un senso alla morte di una ragazzina, impedirle di andarsene da invisibile. Ed esiste solo in funzione della sua ricerca di verità: qualsiasi altro dettaglio mi sembrava superfluo.

Nel libro si avverte una notevole tenerezza, oserei dire “commozione”, per la figura triste e dolente di Silvia, morta in Italia inseguendo il sogno di migliorare la propria vita. E’ una mia impressione, ma anche nei confronti di Alex, piccolo criminale in fondo vittima anch’egli di eventi e personaggi spietati, provi a volte una certa simpatia?
Credo che la parola giusta sia empatia. Ho immaginato i suoi vissuti interiori e ho finito con il condividerli, sono entrata in sintonia emotiva con lui. Alex era un ragazzo sprovveduto, pieno di orgoglio e presunzione, con la testa bruciata dalla cocaina. Avrebbe avuto un disperato bisogno di dormire e invece ha continuato a macinare errori, a muoversi senza capire che più in alto di lui si stava combattendo una guerra. Non riesco a non pensare che la sua vita sarebbe potuta andare diversamente se il destino gli avesse dato altre carte o se lui avesse avuto più forza di volontà, se non fosse entrato in carcere, se in carcere non avesse fatto certi incontri, se una volta fuori qualcuno lo avesse aiutato a reinserirsi, se avesse avuto la lucidità per capire chi erano le persone a cui dava fiducia.

Nelle pagine del libro si avvertono tutto il rigore e la preparazione della giornalista, permettimi il termine, “impegnata”. In che rapporto riescono a convivere questi elementi, legati alla tua professione, con la fantasia e la libertà espressiva che invece caratterizzano lo scrittore?
Come giornalista mi limito ai fatti e mi astengo dal riferire opinioni personali, mi preoccupo di cose come la continenza e la verità. Anche dello stile, è ovvio, ma solo per cercare di essere il più chiara ed efficace possibile. Per questo libro, nella fase di raccolta del materiale, ho continuato a comportarmi da cronista: puro mestiere. Ma poi, scrivendolo, ho rinunciato ai vincoli della mia professione perché ho capito che non volevo scrivere un libro-inchiesta, volevo raccontare una piccola storia che fosse specchio di un mondo più grande. Un romanzo appunto. E quando ho preso coscienza di questo ho scoperto la libertà: ho usato gli aggettivi a mio piacimento, ho sfasato qualche tempo, ho immaginato scene che forse non ci sono state, ma che erano in grado di descrivere un ambiente e un periodo storico, ho dato la mia voce ai personaggi.

Il tuo libro è ambientato, qualche anno addietro, fra Milano e la riviera romagnola, che tu descrivi, specie la prima, come profondamente infiltrate dalla malavita, che spesso pare agire indisturbata. Secondo te, la situazione in questi anni è ancora peggiorata?
È difficile dare giudizi qualitativi: ci sono stati gli anni dei sequestri, degli omicidi, delle guerre tra bande e dei regolamenti di conti nelle strade, poi quelli della corruzione, degli appalti truccati, dell’economia inquinata, dei traffici di rifiuti tossici, dei facilitatori… Non so quale sia stato il momento peggiore, ma so che lo Stato si è spesso illuso di avere voltato pagina. Nel 1993 pensava di avere messo in ginocchio la criminalità organizzata, decapitando in una sola notte i vertici della ’Ndrangheta nella periferia milanese. Ma poi quel vuoto è stato occupato da altri, anche da alcuni degli uomini che ho citato nel mio libro. L’ultimo rapporto sulla presenza mafiosa al nord, elaborato dall’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano, dice che la “zona grigia” è diventata sempre più potente e pericolosa. Ci sono uomini in contatto sia con la politica che con le cosche criminali, professionisti con le mani ovunque che corrompono, blandiscono, minacciano, scambiano favori e se ne hanno bisogno sanno a chi bussare per avere un aiuto armato. Tutto questo è così allarmante da non avere bisogno di confronti con il passato.

Dopo questa bella opera prima, pensi di cimentarti ancora con la scrittura e, se sì, hai già qualche idea in proposito?
Sto aspettando di incontrare una storia che mi faccia tornare di fronte al pc. Non sono una scrittrice di professione, posso prendermi tutto il tempo che voglio.

Come vedi il panorama editoriale italiano e, in particolare, che futuro può avere, secondo te, il libro “cartaceo”?
La tempesta perfetta, come l’hanno chiamata gli editori, sta finendo. Ci sono i primi segnali di una ripresa del mercato del libro, gli adolescenti leggono, alcuni continuano a farlo anche da adulti. Certo, mi piacerebbe vedere più libri e meno “libroidi”, meno fenomeni editoriali costruiti a tavolino, meno titoli di chi è famoso per fare qualsiasi cosa fuorché scrivere. Il digitale è un’occasione, se gestito bene, per aumentare il numero dei lettori. Non credo alla guerra tra libri ed ebook, che tra l’altro mi incuriosiscono per la loro capacità di sperimentare. Se gli editori sapranno investire ci sarà spazio per entrambi e in ogni caso il problema più grande non è il “materiale” su cui una storia viene scritta, ma la possibilità che ha di incontrare i suoi lettori. Oltre alla pluralità di editori dovremmo riflettere sulla nostra rete commerciale e sul ruolo dei nuovi attori globali.

Un’ultima domanda. Che consigli darebbe la Stefania Parmeggiani giornalista ed esperta (anche) di editoria ad un giovane aspirante scrittore?
Dipende… Se vuole firmare un libro di facile successo, gli consiglierei di frequentare le nuove piattaforme di lettura e scrittura, i club online e i social network, di crearsi un pubblico ancora prima di scrivere, di intuire le tendenze e giocare in anticipo, di studiare il marketing per trasformare se stesso in un brand. Se vuole firmare un buon libro gli consiglierei invece di leggere gli autori magnifici che hanno segnato la nostra letteratura, di immergersi fino alla punta dei capelli nel mondo in cui vive, di guardare la realtà negli occhi e non solo attraverso lo schermo di un pc. E se riuscirà a fare entrambe le cose di certo non avrà avuto bisogno dei miei consigli.

Gian Luca Antonio Lamborizio

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