Intervista Simona Vinci – Parla, mia paura

In occasione del Noir In Festival abbiamo avuto la possibilità di fare qualche domanda a Simona Vinci autrice di Parla, mia paura, ed. Einaudi

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È un emozione che non ha automaticamente una connotazione negativa. È grazie alla paura se siamo sopravvissuti come specie e se ci manteniamo in vita! Attraverso la paura si imparano moltissime cose, il problema si pone quando la paura paralizza o costruisce muri, mentali ed emotivi.

Come si combatte?
Con l’ascolto e il riconoscimento, ma non userei metafore guerresche, più che di combattere si tratta di negoziare.

Come è nato il suo ultimo libro?
“Parla, mia paura” deriva direttamente dal lungo percorso che mi ha portata a scrivere “La prima verità”, anche lì c’è un io narrante che apre e chiude un testo che è insieme fiction, romanzo storico, reportage e memoir; avevo lasciato indietro, al momento della pubblicazione, molte pagine, e ho pensato, insieme all’editore, che poteva aver senso offrire ai lettori questa piccola meditazione su un periodo difficile della mia vita, un’esperienza non estrema, ma anzi con punti in comune con moltissime persone, per provare a guardare a possibili via d’uscita dalla disperazione.

Leggendolo si percepisce la grande sofferenza che ne ha accompagnato la stesura ma anche il ruolo fondamentale che la scrittura riveste nella sua vita. Definirebbe la scrittura come una forma di terapia?
Per me lo è stata e lo è certamente. Da sempre la letteratura (quella scritta da altri, in primis) è i mondi altri che abito, le personalità che assumo, in tempi e luoghi distantissimi tra loro, è una modalità per uscire da sé e ritornare a sé arricchiti, forse diversi, si spera migliori perché più consapevoli che non esistono vie uniche ma che le esperienze sono infinite. Ma non penso che la scrittura ‘terapeutica’ sia sempre interessante, da leggere, per altri che non sia tu stesso, anzi! Per essere uno scrittore occorre tenere sempre presente un ipotetico lettore. La scrittura-sfogo non è letteratura.

Si è dedicata molto al tema del disagio psicologico, al raccontare la vita di coloro che vivono problematiche collegate, secondo lei che influenza ha lo stile di vita della società occidentale nel generare questo tipo di patologie?
Ogni epoca, e ogni società ha le sue forme di disagio e i suoi modi di riconoscere, classificare e cercare di gestire questi disagi. Spesso cercando di arginare e contenere più che comprendere e includere. Oggi sicuramente siamo particolarmente fragili di fronte all’ansia e alle paure di vario genere: di non essere all’altezza di quanto ci viene richiesto per essere considerati dei “vincenti”, di essere sopravanzati e sopraffatti da altre culture, viviamo insomma in uno stato di continua allerta. Non è un caso che i disturbi d’ansia siano in costante aumento soprattutto tra i giovani (e non è secondario l’abuso di sostanze del quale però poco si parla).

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Quanto è difficile mettere tra le righe temi così delicati e personali?
Dipende da quanto ci si è lavorato livello personale, prima. Non avrei mai scritto di me, (in realtà partendo da me per cercare di guardarmi attorno e provare a raccontare anche le storie di altri), se non avessi prima affrontato quelle tematiche così private con percorsi diversi dalla scrittura.

Lei viene da Bologna, città che dai Wu Ming a Lucarelli ha regalato grandissimi autori alla letteratura nazionale dell’ultimo trentennio. La sua opera è influenzata come la loro dal territorio in cui vive? Quella Bologna metropolitana che Lucarelli ha definito “una cosa grande che va da Parma fino a Cattolica, un pezzo di regione spiaccicato lungo la via Emilia” si riflette nella sua scrittura e nei temi che questa affronta?
Lo è stata molto, vedi ad esempio i romanzi “Strada Provinciale Tre” e “Rovina” che affrontano in via più diretta i temi del rapporto tra territorio e persone che lo abitano o lo attraversano e della rapina e distruzione di quel territorio (e dunque delle persone) per interessi economici non puliti. Vivo a Budrio, in provincia, e non sono particolarmente attratta dalla città. Mi interessa di più ciò che si muove ai margini. Mi affascinano le zone di passaggio tra centro e periferia.

Ci vuole consigliare un libro uscito di recente?
Ne potrei consigliare moltissimi, ma al momento faccio fatica a concentrarmi sulle uscite recenti, tendo sempre, soprattutto per motivi di tempo, a rimandare la lettura delle novità; per dire, sul mio tavolo al momento ci sono le lettere di Giuseppe Verdi, “Malombra” di Fogazzaro e “Chi ha paura dei fratelli Grimm” di Jack Zipes, tutti libri che mi servono per lavoro – : comunque direi “La compagnia dell’acqua” di Giacomo Papi che racconta una Milano sotterranea e notturna, misteriosa, e “La ragazza con la Leica” di Helena Janeczek che racconta e reinventa partendo dai documenti la vita della grande fotografa Gerda Taro, morta giovanissima su un campo di battaglia.

Ultima domanda su uno dei temi chiave del nostro tempo, i social network: lei utilizza Facebook e Twitter, quale ritiene sia la loro utilità sociale, personale e professionale? Come ritiene si possa rimediare alla violenza e alla negatività che questi nuovi media sembrano veicolare sempre più spesso?
I social hanno una grandissima utilità, sono strumenti e come tutti gli strumenti li si possono utilizzare in maniera appropriata e costruttiva, oppure come armi. Un martello va bene per piantare i chiodi meno bene se lo sbatti in testa a qualcuno. Il nodo cruciale è la responsabilità di ciò che si scrive. Le parole sono pesanti anche se a volte non ci sembra. Una battuta, un’opinione buttate lì per raccogliere like possono distruggere qualcuno. Penso soprattutto ai più giovani ai quali un’etica dei social deve essere insegnata, o scoperta insieme a loro. Non è facile. Altro tema è saper distinguere il vero dal falso. Le bufale imperversano e proteggersene presuppone una capacità di lettura, di confronto e analisi delle fonti che secondo me andiamo perdendo, nella fretta, nella bulimia, nell’ansia di condividere subito per poi passare ad altro. Per quanto mi riguarda, non sono una tossica, sono capace di staccare per giorni e giorni senza sentirmi in colpa. Sono consapevole dell’enorme perdita di tempo che possono rappresentare e al mio tempo ci tengo. Il tempo di vivere, leggere, sognare, cucinare, passeggiare, insomma fare qualunque cosa non presupponga un pubblico.

Milanonera ringrazia Simona Vinci per la disponibilità

Thomas Melis

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