Io sono il libanese



Giancarlo De Cataldo
Io sono il libanese
einaudi
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Com’era la criminalità romana prima dell’avvento della famigerata Banda della Magliana? Chi regnava per le strade prima dell’affermarsi del “Terribile”? Com’è iniziata la scalata al potere del Libanese e dei suoi soci? Come e quando è avvenuto il primo incontro tra il Libanese e il Freddo?
Chi, deluso dal film di Michele Placido, si è rifugiato nella pregevole serie tv “Romanzo Criminale”, andata in onda su Sky tra il 2008 e il 2010, forse conosce già le risposte ad alcuni di questi interrogativi… per tutti gli altri, Giancarlo De Cataldo torna a raccontare la Roma degli anni ’70 in “Io sono il libanese”, brevissimo prequel di “Romanzo Criminale” in uscita in questi giorni per Einaudi Stile Libero.

1976. Il venticinquenne Libanese è detenuto in carcere, accusato di traffico d’armi (cosa non strana, dato che al momento la principale attività della banda consiste nella “retta”, la custodia degli arsenali di varie batterie romane); qui, avuti i primi contatti con la Camorra, comincia a pensare in grande. Ambizione a parte, è proprio la proposta -trecento milioni per un affare di droga- del cutoliano Pasquale ‘o miracolo, conosciuto a Regina Coeli, a spingere il futuro capo della banda della Magliana a non accontentarsi del suo ruolo da comprimario nel quadro della criminalità romana. Tra un’operazione di scarso successo e l’altra (la banda non arriverà a mettere insieme i soldi necessari per prendere parte all’affare), il Libanese si trova coinvolto in una storia con la bella e facoltosa studentessa “rivoluzionaria” Giada. La tentazione di mollare tutto è forte, ma l’aspirazione a diventare il nuovo “Re di Roma” è destinata ad avere la meglio (purtroppo, la scelta del Libano è solo suggerita: “Io sono il Libanese” si chiude infatti sul più bello, immediatamente prima del rapimento del “barone Rosellini”)…

Certo, non c’era da aspettarsi un nuovo “Romanzo Criminale”, ma tutto sommato “Io sono il libanese” difetta del fascino del grande affresco, dell’assoluta novità e della quasi-monumentalità del suo predecessore; la “falsa” romanità dei dialoghi, moderata, stemperata, per salvare la fruibilità del testo su scala nazionale, recede dallo status di “scelta realistica” a quello di mera nota di colore. L’intreccio ha un’aria vagamente raffazzonata; il rapporto tra storia e Storia è meno definito di quanto non lo fosse in “Romanzo Criminale” ecc. Si salvano le ambientazioni, i personaggi e lo stile. Insomma, nel complesso il romanzo convince (De Cataldo è sempre De Cataldo, “Romanzo Criminale” è sempre “Romanzo Criminale” e ogni scusa è buona per riprendere le tracce di Libano, Dandi, Scrocchiazzeppi, Bufalo ecc.), ma non senza qualche riserva…

fabrizio fulio-bragoni

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