La finestra dei Rouet



georges simenon
La finestra dei Rouet
Adelphi
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Dominique, figlia di un generale, vive in un appartamento in rue Faubourg-Saint Honoré, bella zona di Parigi. Ha affittato una camera a una coppia di cui sente scorrere l’intera vita. Quella più intima compresa.
La nitidezza del suono prende così per mano la sua immaginazione da rendere inutile vedere per sapere. Gli occhi Dominique li riserva alla casa di fronte. Vi abitano i Rouet, proprietari di una delle più antiche trafilerie di rame. Al piano di sopra i vecchi, sotto il figlio Hubert con la moglie Antoinette. Con loro, la domestica Cécile.
Dietro la finestra, protetta dalle persiane, Dominique osserva le loro giornate. È lì anche quando Hubert muore. Più che spettatrice si ritrova testimone di qualcosa che potrebbe essere anche definito omicidio. Parigi è invasa dal caldo, l’afa si fa insopportabile, ma lei giura di aver visto Antoinette versare nel terriccio di una pianta la medicina di cui ha bisogno il marito malato.
E glielo fa sapere con una lettera anonima. Che però, una volta giunta a destinazione, non crea più dramma di quanto il dramma stesso non sia pronto a entrare in azione da solo per pulsioni che finalmente vengono alla luce.
Scritto nel 1942, ma pubblicato inizialmente in Francia nel 1945, La finestra dei Rouet è una delle storie più sottili di Georges Simenon.
Impregnata di quella nera lievità avvelenata che sarebbe poi esplosa nel benedetto 1946, uno degli anni monstre dello scrittore con il trittico totemico che mette in fila Il clan dei Mahé, Tre camere a Manhattan e Lettera al mio giudice.
In questa sorta d’anticipazione dell’hitchcockiano La finestra sul cortile Simenon dispone sul foglio tutta la maestria che ha fatto di lui uno degli scrittori cardine per capire il giro su se stesso che l’essere umano ha compiuto nel Novecento. Senza dover ricorrere a specificazioni di generi letterari.
Dominique è una donna impotente di fronte alla vita. Portatrice di una carnalità che non ha mai avuto il coraggio di condividere e assaporare, a quarant’anni si sente come se ne avesse ancora sedici, ma si vede bianca pallida. Poco più di un rottame. In cui la rassegnazione ancora si confonde per una distinta forma di riservatezza. La vita le è andata altrove.
E, davanti alla sua finestra, si srotola la quotidianità di un’altra giovane donna, inquieta, stretta da una morsa famigliare che le azzoppa il respiro. Ma Antoinette è fonte di una vitalità radicale a lei sconosciuta e preclusa. Quella che, quando la vita incalza, fa pensare che anche il gesto più estremo possa rivelarsi il frutto di una naturalezza che s’impone di esplodere.
Per quanto si trasformi in un segugio, Dominique non può fare a meno di comprendere che un legame, anche invisibile, tra loro si sia formato. È vero, c’è l’ingombro di un cadavere, c’è una giustizia a cui appellarsi. Magari anche un Quai des Orfévres per denunciare il fatto alla polizia. Eventualmente. Perché se non si ha una vita propria si cerca di entrare in qualche modo in quella degli altri. Altrimenti la frustrazione si fa ingovernabile.
Parafrasando una frase del libro: per Dominque l’ultimo autobus è passato e sta passando anche l’ora dell’ultimo metrò. Fuori, l’afa parigina fa il paio con il senso di claustrofobia che s’impossessa pian piano del suo agire. Possibile doversi limitare a registrare il godimento dei propri affittuari e a vedersi come intristita voyeur al di là del muro? Proprio impossibile giocare uno scherzo al tempo? Le ultime pagine sono un autentico film. In cui il sangue si limita a bollire dentro. O si blocca. Peccato non aver chiamato Hitchcock. O magari Louis Malle.

corrado ori tanzi

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