La prigione della monaca senza volto



Marcello Simoni
La prigione della monaca senza volto
Einaudi
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Comincerò questa mia recensione in modo assolutamente anomalo. Lo faccio perché innanzi tutto vorrei spiegarvi perche mi piace e molto Girolamo Svampa, questo nuovo, reale, centrato e amaro personaggio di Marcello Simoni. Mi piace Svampa perché è un personaggio vero, umano, controverso ma fragile, il laudano che prende e cerca di non prendere è allo stesso tempo la sua debolezza e la sua salvezza. Svampa è un personaggio più fragile di quando vorrebbe sembrare, e tuttavia, essendone perfettamente conscio, anche per questo diventa fortissimo e riuscendo a controllarsi, si trasforma in acciaio temprato. Lo so, ne sono più che certa, anche per esperienza diretta, che le persone più ferite nell’animo e nel fisico, quelle che hanno maggiormente sofferto, nascondendo pudicamente le loro piaghe e, combattendo ogni giorno con la vita, talvolta cedono e si uccidono. Taluni lo fanno, per vigliaccheria direte, e se invece si trattasse di pura e semplice pìetas per non imporre agli altri la proprio presenza? Certo abbandonarsi, andarsene è una gran brutta tentazione che può apparire facile e invece ci sono coloro che resistono, non mollano, vanno avanti, giorno dopo giorno, stringendo i denti, usando la loro sofferenza come una lama che pungola le carni e costringendosi a indossare una maschera che li trasforma in anaffettivi e asociali burattini di ferro che recitano nella tragicomica scena della vita. Solo personaggi di romanzo oppure?
Ma torniamo alla recensione promessa ai lettori di un bel romanzo di Marcello Simoni che neppure stavolta ci ha traditi. Anno del Signore 1625. A Roma governa Urbano VIII.
Il 6 agosto 1623, dopo ben 37 scrutini, Maffeo Barberini fu eletto papa. A Roma, la comunità che nel passaggio dal Cinquecento al Seicento aveva creduto nel pensiero moderno in parallelo alle cerchie artistiche e intellettuali d’Europa, esultò. Era arrivato il momento sospirato per uscire dalla buia cappa della Controriforma? E invece Urbano VIII con un vigliacco (ed è dir poco) dietrofront mise in atto una virata a 360 gradi, consegnò nelle mani dell’Inquisizione Giambattista Marino e Galileo e impresse all’arte un nuovo stile che annullò quello del Caravaggio. Alla fine degli anni Trenta del Seicento, tutto era cambiato, la scena artistica irriconoscibile. Trionfava una nuova era che collegava la religione solo al potere temporale. Il Papa Barberini, che prima si era fatto ritrarre da Caravaggio, era diventato solo promotore del Barocco. Ogni traccia di tangibile verità fu cancellata, da quel momento tutto, compresa l’arte, divenne sinonimo di finzione, spettacolo. In pochi decenni Roma si era trasformata nella capitale teatro dell’immaginazione. I dogmi e le api dei Barberini svolazzano impietosamente sui palazzi aviti. La breve fervida stagione della realtà e della scienza emigrava nel Nord Europa.
Girolamo Svampa ha implorato, nell’aula tribunalizia del Palazzo del Sant’Uffizio, giustizia a carico di Gabriele da Saluzzo, suo nemico giurato da sempre. Ma ha fallito e ora impotente di fronte alla decisione pontificia di non accusar Gabriele da Saluzzo, nonostante le numerose prove addotte, prove che dimostravano anche l’iniqua uccisione di suo padre da parte di quel crudele aguzzino per difendere un negromante.  Svampa si sente tradito. Non basta, Saluzzo ha lasciato Roma per Milano e se vuole dargli la caccia e metterlo in qualche modo di fronte alla sua infamia sarà costretto a una avventurosa trasferta da solo e in incognito senza neppure l’avvallo del suo nume tutelare Niccolò Ridolfi. Per sua fortuna, il segretario della congregazione dell’indice, Padre Capiferro, ormai stufo di passare le sue giornate a imparare a memoria le parole stampate dello scibile umano, ha deciso di accompagnarlo. Ciò nondimeno, quasi non bastasse quanto è vero il detto che i guai non capitano mai soli, il fedele bravo di Svampa, Cagnolo Alfieri, alla notizia del rapimento della figlia ha dato di matto, riuscendo a farsi arrestare. Per non confondere il lettore spieghiamo che Matilda, monaca e figlia di Cagnolo, era stata spedita dal padrone del bravo a Milano, dal 1525 sotto il tallone spagnolo, per porla sotto la diretta protezione del cardinale Federico Borromeo, iconosclastica figura manzoniana, e invece a conti fatti malriuscita copia in tutti i sensi dello zio santo. Insomma Girolamo Svampa avrà almeno due ragioni per andare a Milano, girare senza tonaca a farsi coinvolgere nel peggior pasticcio investigativo che gli sia mai capitato. E si troverà davanti una vicenda talmente confusa e scioccante che finirà con stravolgere anche buona parte delle sue capacità e dei suoi convincimenti. Eh già, perché nella città ambrosiana, farà presto a scontrarsi con due angosciosi enigmi. Il primo riguarda il diabolico, o almeno pare, ritrovamento del cadavere pietrificato di una religiosa canterina di una musica proibita (ma anche fornita di ehm diciamo altre muliebri doti). Il secondo, l’incontro e la successiva scelta di non belligeranza con una anziana monaca murata in una cripta per aver commesso crimini innominabili: suor Virginia de Leyva, la celeberrima Monaca di Monza. Quest’ultima che sembra a conoscenza di particolari che potrebbero svelare il mistero della pietrificazione, inizia a esercitare sull’inquisitore un morboso ascendente. Vittima dopo vittima però, incalzato dal cardinale Federigo Borromeo – e aiutato da Cagnolo, dall’enciclopedico padre Francesco Capiferro, ma soprattutto dalla bella e intrepida Margherita Basile – lo Svampa scoprirà persino l’origine della trasmutazione in pietra. Ma sul suo cammino ritroverà anche un pericoloso rivale che già conosce, qualcuno che potrebbe rivelarsi imbattibile. E… e…. e ora basta perché sennò dicono che spoilero e mi tagliano la recensione.                                                                        Bel libro che rispecchia: cultura (non se ne dubitava), storia, intelligenza e Deo gratias anche avventura (un po’ di diletto per i lettori eh diamine!). Letto e goduto. La perfida Albione in odor di cattolicesimo vuol mettere naso e credenze nella penisola. Irrinunciabile la definizione di Milano, paragonata a una sorella minore di Madrid. Anche per chi si crede nel giusto, se si vuole complicarsi la fede, bisogna rincorrere la perdizione della scrittura angelica. Difficile per un domenicano (anche se ti chiami Girolamo Svampa) riuscire a mantenere i nervi saldi davanti alle scultoree e pruriginose arti della bella Margherita Basile. Capiferri trasformato in uomo d’azione in un quasi marinaio, dovrà intraprendere per seguire il suo ormai definiamolo compare persino un viaggio fino all’Africa. Prossimo capitolo a caccia del Negromante? Intrigante, e me lo concederete storicamente centrato, il cameo relativo alla Monaca di Monza. E qui l’inciso s’impone: perché la Monca di Monza, cantata anche dal Manzoni, si chiamava in realtà Marianna Levya ad era l’unica figlia di Martino de Leyva y de la Cueva-Cabrera (buona famiglia ma spiantato e fatto conte di Monza per la dote della moglie) e della “ricchissima” ereditiera Virginia Marino figlia del banchiere genovese Tommaso, pilastro finanziario di Carlo V. (Vedi palazzo Marino, palazzo comunale di Milano, Piazza Scala). Ma Virginia Marino era anche la vedova di Ercole Pio e quindi alla sua prematura morte ci fu un bel parapiglia tra gli eredi, tra i quali dominava Marco Pio di Savoia, duca di Sassuolo e marito di Clelia Farnese. L’accordo raggiunto faticosamente fu che alla piccola Marianna, detta poi anche Virginia, toccò un terzo dei possedimenti materni. Ma suo padre si risposò, ebbe altri figli e lui e la nuova moglie si fecero venire altre idee. Con atto notarile del 15 marzo 1589, Martíno costituì la dote spirituale di 6000 lire imperiali per la primogenita al suo ingresso nel monastero benedettino di clausura di S. Margherita di Monza con il nome di Virginia Maria. La dote fu depositata presso Giuseppe Limiato, amministratore e procuratore dei Leyva a Monza, con l’impegno al versamento nelle casse del monastero al momento della professione monacale della Leyva. Oltre a tale somma, il padre si impegnò a pagare 212 lire e mezza all’anno fino alla professione e alla consegna della dote, più altre 300 lire annue per tutta la vita della giovane. Le 6000 lire imperiali scomparvero (già!) e il resto è storia e varie leggende poi legate alla Monaca di Monza … che soffrì, fu punita orribilmente, si pentì, e morì in clausura in convento nel 1650.

 

Patrizia Debicke

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