La tredicesima tavola- intervista a Bruno Bertolini

copertina la tredicesima tavola_350Lipsia, 1877. Il professor Leuckart, brillante zoologo e illustre accademico, sta curando la stampa di una serie di tavole, relative a rarissimi esseri viventi, fra cui il mitico pingomorfo, a metà fra insetto e crostaceo, la cui effettiva esistenza porterà nuova linfa alla teoria evoluzionistica e grande fama ai suoi autori. Tutto è pronto per la pubblicazione; manca all’appello solo una tavola, appunto quella relativa allo strano essere. La scena, passando attraverso sanguinose ed epiche battaglie navali e misteriosi assassini, si trasferirà poi ai nostri giorni. All’Università di Pavia un gruppo di docenti e ricercatori sta curando una storia della zoologia, e per farlo è necessario recuperare le famose tavole di Leuckart, che verranno via via tutte ritrovate, tranne, appunto, quella relativa al pingomorfo. Quale cupo mistero si cela dietro la sua sparizione? Un altro zoologo tedesco, Helmut Tobias, dovrà fare luce, a rischio anche della propria vita. Questa, in breve, la trama dell’ultimo romanzo di Bruno Bertolini, La tredicesima tavola, uscito in questi giorni in libreria per la piccola, raffinata casa editrice Carabba.
Bruno è stato docente universitario di biologia cellulare e anatomia comparata alla Sapienza di Roma, mentre ultimamente ha deciso di dedicarsi alla scrittura. Dopo Mai esistito e L’invenzione dell’ombrello è ora in libreria la sua ultima fatica letteraria, La tredicesima tavola, un intrigante romanzo breve in cui si mescolano la descrizione ironica e disincantata di certi ambienti accademici, un po’ di spy story e una piccola storia d’amore.

Bruno, ci vuoi spiegare quando è nata in te la vena più propriamente “letteraria”, dopo una vita dedicata alla scienza nel senso stretto del termine?
Quando i miei figli, e poi mia nipote, erano piccoli, mi inventavo delle storie che raccontavo la sera, per addormentarli. Storie che si prolungavano, a puntate, per molte sere di seguito, e che ancora citiamo in famiglia. Questa voglia di raccontare mi è rimasta e, negli ultimi anni di lavoro universitario, quando mi occupavo ormai più di organizzazione e amministrazione, che di ricerca, ho cominciato a scrivere storie, e ora, che sono in pensione, posso dedicarmi più liberamente alla scrittura. Mi diverto a scrivere, e spero che si divertano con le mie storie anche i lettori.

 Sei stato anche per tanti anni docente universitario. Come è cambiato secondo te il mondo accademico dagli anni di cui parli nell’incipit del tuo romanzo ai giorni nostri?
L’incipit del mio romanzo descrive un mondo accademico di fine Ottocento, un mondo in cui le università erano in espansione, soprattutto per quel che riguardava le facoltà scientifiche, e c’era uno stretto scambio di conoscenze tra mondo della produzione e mondo della conoscenza. I docenti universitari avevano una posizione di rilievo nella società, gli studenti erano una ristretta minoranza della popolazione giovanile, e provenivano pressoché esclusivamente dai ceti più alti.
Questo modello di università era ancora vigente quando ero studente, anche se traballante e poco funzionale, rispetto ai cambiamenti della società, ed è entrato in crisi quando è stata creata la scuola dell’obbligo e l’accesso aperto a tutte le facoltà. Ma anche perché la scarsità di risorse per la didattica e la ricerca ha fatto sì che l’università non riuscisse più a tenere il passo rispetto alla domanda di istruzione. Non tanto rispetto ad una eventuale domanda di innovazione tecnologica, perché in generale, l’industria italiana non ha saputo, o voluto, tenersi al passo dei tempi.
Si è passati, troppo rapidamente, dal Professore, unico detentore di una prestigiosa cattedra, ai tanti professori, spesso reclutati in modo approssimativo o clientelare; dagli studenti élite, allo studente massa. Ma già la qualità dell’università era fortemente decaduta, salvo alcune isole di alta qualità scientifica e accademica, e il ’68 ha rappresentato, nel bene e nel male, una spinta al rinnovamento che qualcosa di buono ha portato, ma che si è spenta troppo presto con l’avvento degli anni di piombo.
Oggi la scarsità di risorse e la mancanza di turn over di docenti, e del personale non docente, stanno producendo una pericolosa perdita di qualità della ricerca e dell’insegnamento, e una altrettanto pericolosa perdita di competenze che potrebbero divenire irreversibili.

Che consigli ti sentiresti di dare a un giovane che volesse intraprendere la carriera accademica nel nostro Paese?
Non è facile dare buoni consigli. Io ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera in un’università povera e disorganizzata, ma che cominciava a espandersi e a rinnovarsi. Il primo consiglio è quello di scegliere un campo di studio che ti interessa e ti diverte. Il divertirsi nello studio, secondo me, è fondamentale. Vengono soltanto dopo le scelte di opportunità: le richieste del mercato del lavoro, lo studio avviato, l’impresa familiare. I criteri economici hanno il loro valore, ma un buon naturalista sarà più felice, e forse troverà più facilmente lavoro, di un cattivo ingegnere. Però conosco ottimi e qualificatissimi giovani, pieni di entusiasmo, che sono costretti a lavori precari e inadatti, e il mio consiglio resta quindi nell’ambito dei consigli inutili che ti danno le persone anziane.

 E a uno che volesse invece fare della scrittura la propria professione?
Non lo so. Io sono un parvenu nel campo letterario. Solo di recente ha cercato di intrufolarmi nella categoria degli scrittori, e ho avuto la fortuna di trovare un editore che mi ha dato fiducia. Ho l’impressione che in Italia ci siano più scrittori che lettori, e campare esclusivamente con la vendita delle proprie opere è difficile. Solo pochi riescono a sfornare di continuo dei bestseller. Ma come per la domanda precedente, può valer la pena di provarci, magari tenendosi una ruota di scorta in qualche campo in cui far valere con maggior profitto le proprie competenze.

Il tuo modo di scrivere appare molto spontaneo, ed è spesso pervaso da una sottile ironia, con riflessioni e “dialoghi” con il lettore che richiamano, permettimi l’accostamento, certe pagine manzoniane. Da dove pensi ti derivi questa “facilità di espressione”?
L’accostamento a certe pagine manzoniane mi inorgoglisce, ma non esageriamo! I dialoghi col lettore mi divertono, ma non sono dialoghi, nel senso etimologico della parola. Lo scrittore parla, ma il lettore non ha modo di interloquire. Ad esempio, l’intero capitolo 6 de la Tredicesima Tavola è quello che si dice un dialogo col lettore, ma in realtà è una lezioncina, che cerca di essere divertente, sulla complessità della rete di cause ed effetti che collega i fenomeni del nostro Universo.
La facilità di espressione, che benevolmente mi attribuisci, deriva forse dalla lunga consuetudine all’insegnamento, e dall’aver scritto testi scientifici e divulgativi, in cui la necessità assoluta di farsi ben comprendere, senza ambiguità, è il primo requisito. Questo non significa che l’allusività, l’ambiguità, i sensi nascosti che il lettore deve scoprire, non possano essere il valore di una scrittura. Pensiamo alla scrittura poetica. Ma non mi fate argomentare su questi argomenti, da quel letterato che non sono.

Parliamo un pochino più da vicino della tua ultima creatura letteraria, La tredicesima tavola. Come mai hai deciso di ambientare gran parte del romanzo nel mondo accademico? Il primo amore non si scorda mai, oppure l’ambiente si presta molto bene?
L’ambiente accademico si presta molto bene ad ambientare delle storie.
È un ambiente molto competitivo, in cui agiscono personaggi cui puoi attribuire caratteri positivi e negativi fortemente caratterizzati, invidia, arrivismo, meschinità, come anche saggezza, abnegazione, coraggio, altruismo. Onestà, inganno, necessità di compromessi. Nepotismo, sopraffazione, come anche rigido moralismo. Molti romanzi sono stati dedicati all’ambiente dell’accademia e della ricerca, da Il professore va al congresso di David Lodge, ai libri di Renzo Tomatis, tanto per citare qualche titolo che mi viene in mente.
Ma in fondo non sto facendo altro che elencare caratteristiche della società più generale, dopo tutto.

 Il protagonista del tuo ultimo romanzo è Helmut Tobias, simpatico e un po’ imbranato zoologo tedesco con molta propensione alle investigazioni. A chi ti sei ispirato per questo personaggio?
Nonostante che sia il protagonista della storia, non è dopotutto un personaggio fortemente caratterizzato. Non ha né qualità, né difetti particolari, è un po’ un uomo “senza qualità”. Quanto all’imbranato, bene, forse ripete una mia caratteristica.

 Ho definito Helmut “un po’ imbranato” (e, appunto, molto simpatico…). Insomma, un protagonista atipico. Finita l’epopea degli Indiana Jones, o più semplicemente questo “eroe normale” è più vicino alle tue corde?
Non so se l’epopea degli Indiana Jones sia finita, e mi dispiacerebbe se così fosse, perché l’avventuroso archeologo mi diverte e mi è simpatico. Anche i protagonisti de L’invenzione dell’ombrello e di Mai esistito sono persone normali, che loro malgrado si trovano implicati in storie complicate, in avventure che non hanno cercato. E pure il biochimico Tobias ci si è ficcato imprudentemente, per aver bevuto un po’ troppo in compagnia degli amici. Sì, forse questi antieroi, per così dire, mi sono più congeniali. E anche i protagonisti di due altri romanzi, che stanno maturando nel cassetto, in fondo hanno caratteristiche simili.

 Parliamo ancora di scrittura e di libri… tre fra i tuoi autori preferiti?
Ci sono tanti e tanti libri che mi hanno affascinato, e che credo abbiano contribuito alla mia formazione letteraria (vorrei mettere tra virgolette queste due ultime parole, perché in realtà non ho alcuna formazione letteraria). Come si fa a citarne solo tre? Tra le letture più antiche mi viene da ricordare Kafka, Melville, Edgar Lee Masters, Hemingway, e, tra le recenti, Saramago, Pennac, Perec, ma non vorrei trasgredire quel  che mi impone la domanda, e allungare l’elenco.

Ultima domanda di prammatica: progetti ma, soprattutto, il sogno nel cassetto di Bruno Bertolini scrittore?
Sogni nel cassetto dello “scrittore”? Nel cassetto ho due romanzi finiti, da rileggere con calma, e ne ho altri tre iniziati, tra i quali salto irregolarmente. Chissà se riuscirò a completarli? Sono storie assai diverse che mi piacerebbe riuscire a far leggere, come dice uno scrittore assai più famoso di me, ad almeno venticinque lettori.

 

Gian Luca Antonio Lamborizio

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