L’anno che a Roma fu due volte Natale – Roberto Venturini



Roberto Venturini
L’anno che a Roma fu due volte Natale
SEM
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È candidato allo Strega questo piccolo (di pagine), grandissimo (di contenuti e stile) romanzo di Roberto Venturini: neppure duecento fogli che ne valgono il doppio, per caratura dei personaggi, tangibilità di ambientazione, audacia stilistica. L’effetto moltiplicatore mi appare da subito, da quella prima, fulminante sequenza che mi scaraventa addosso ai due personaggi principali, Alfreda e il suo villino discarica di Torvaianica. Lei è trash, adorabile, tragica, “centoventi chili di disperazione” per aver perso Mario, il marito, “er fiato suo”, morto in una notte di pesca con la lampara. Assurda vittima di un mare che non ha avuto pietà di lui, e nemmeno del suo pudore nel voler abbandonare alle acque il vergognoso frutto di una colica addominale. Il villino, dove ancora la donna vive con il figlio Marco, era il simbolo della loro ascesa sociale, piantato fiero nel bel mezzo del Villaggio Tognazzi che l’attore e altri come lui avevano strappato all’anonimato, nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei decenni successivi. Casa e Villaggio mostrano oggi i segni di un parallelo declino, intonaci sbrecciati dalla salsedine, muffe che lievitano subdole, colori virati a un irrecuperabile tedio. Il villino si è trasformato in discarica per le inesorabili cataste di ricordi accumulati da Alfreda. Memorie tutte di quando lei, Mario e Marco erano una famiglia vincente: Alfreda docente di materie umanistiche in un istituto secondario, il marito direttore commerciale di un’azienda locale, il figlio (sì, anche lui) divo bambino in una réclame del Dado Knorr, quando ancora non si chiamavano spot. La loro casa, in occasione di una memorabile spaghettata alle vongole, aveva un tempo accolto perfino Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, “simbolo per eccellenza di unione coniugale indissolubile”. Oggi, invece, è un “covile infetto” nel quale le speranze di quella vita sono diventate disperazioni, patetiche macerie che ingombrano ogni spazio e danno ineluttabile alloggio a nugoli di insetti e ai loro ripugnanti e ubiquitari escrementi. Alfreda, “obesa sciatta e diabetica a forza di abbuffate di dispiaceri” caracolla per inerzia in una vita “piena di buchi che offendono la bellezza“ del suo passato, la mente offuscata da chiari indizi di demenza senile. Incalzata, oltretutto, dall‘odioso guardiano del Villaggio che la minaccia di convocare l’Ufficio di Igiene se non sgombrerà la sua casa. Gli amici di sempre – Carlo, il pescatore che senza volerlo ha causato la morte del marito per averlo trascinato alla battuta di pesca notturna, e Er Donna, il bellissimo travestito, dai tratti delicati contrastati dai baffetti mascolini – corrono in aiuto di Marco e operano lo sgombero miracoloso. Alfreda però è vinta dal “furto di buona parte dell’archivio della sua memoria”, come le avessero tagliato le vene. A ogni scatolone che le sottraggono il respiro diventa più affannoso, mentre “contrazioni muscolari e tremori accompagnano il viaggio della sua roba”. Il figlio teme per la sua vita, poi la svolta inaspettata, un ricatto, l’ultima furbizia della donna: Alfreda desisterà dal suo proposito suicida, se Marco la aiuterà a ricongiungere in una unica sepoltura le salme dei Vianello, ingiustamente divise tra il Verano e il Cimitero di Lambrate. Gliel’ha chiesto Sandra, che sempre più spesso la visita di notte, ma servirà anche a dar tregua alla sua stessa disperazione, di essere stata separata da Mario. Carlo e Er Donna non li abbandoneranno, infilandosi in una spirale tragicomica di eventi di cui non dirò oltre.

Favola nera, saga famigliare, elegia della memoria… potrei continuare, ma non voglio. Perché il romanzo è questo, ma è molto di più. È una immensa “cattedrale del ricordo”, dove ogni oggetto (la gelatiera Simac, “dispensatrice di felicità”, ovvero di gelato alla zabaione; il Commodore 64 e i mitici videogiochi d’azione; il Seiko al quarzo di Mario, che regala ad Alfreda “la possibilità di stabilire una comunicazione con l’amor suo”… mi fermo, ma vorrei continuare) evoca forma e sostanza di un passato che è di quei protagonisti, ma risveglia il nostro. Rendendolo presente, in una sorta di prodigio alchemico in cui da nauseabonde macerie si sprigiona inatteso un vanigliato aroma di madeleine proustiane. 

È cinema, il romanzo di Venturini. Non solo per la materica presenza di quegli attori che trasformarono il litorale di Torvaianica in sofisticato rifugio di celebrità, ma anche per il sorriso benevolo e tragico che da certa filmografia, monicelliana e pasoliniana, si allarga ai litorali laziali. Non solo per la efficace scansione tripartita della struttura narrativa, che richiama quella restaurativa, tradizionale della scrittura cinematografica, ma anche per il linguaggio “tecnico” (voice over, stand up comedy, ecc). Infine, per le numerose citazioni (Amore tossico di Claudio Caligari, in primis), ma anche per i non detti: l’addio tra Marco e Francesca per esempio, che ha l’inconfondibile e acre sapore di una resa e che, per un attimo, nell’angusto spazio dell’automobile fa risuonare la voce fuori campo di Rent Boy, in Trainspotting di David Boyle, mentre dichiara di aver rinunciato alla vita.

È un monumento all’amore filiale, di Marco per Alfreda, e alla sua disillusa ricerca di un “regressus ad uterum”, sulle tracce di un profumo che possa di nuovo inglobarlo nella sicurezza amniotica, e là tenerlo al riparo. Un sentimento che lo fa vivere con una costante sensazione di perdita e che, dalle concrete o mentali assenze della madre, lo precipita in una angoscia incoercibile.

Non importa a quale dei suoi mille registri si pieghi la voce dello scrittore – ironico, grottesco, drammatico, favoleggiante, elegiaco -, la tenerezza per i suoi personaggi non riesce a tacerla. Si impone a dispetto dei capelli di Alfreda “sporchi che sembravano tinti nell’olio”, o dei “sorrisoni alla sofficino Findus” di Marco. Si allarga sulle “manone tutte sbocconcellate dal mare” di Carlo, o negli occhi di Ernestina, la maestra, che si illuminano nel vedere arrivare da lontano i suoi allievi, “piccoli come stelle”.

Una tenerezza, poi, che non sa tacere i mille puntelli della memoria, quelli importanti e quotidiani di un’infanzia degli anni ’80: i pupazzi Masters, Cicciobello seppure senza braccia, la play station, la Fanta e i panini all’olio, burro e salame Milano. E, soprattutto, quel “bicchiere sbeccato della Nutella con i Puffi dipinti a mano”. Era anche sulla mia credenza, nella casa al mare. Un altro mare, certo, un po’ più a nord, con un sole che tramontava dalla parte “sbagliata”, ma illuminava con la stessa intensità merende che non si possono dimenticare.

Potenza condivisiva della scrittura, di Venturini in particolare. Lo Strega, io glielo darei subito. E incrocio le dita per lui.

ROBERTO VENTURINI è nato nel 1983 a Roma. È autore, soggettista e sceneggiatore della pluripremiata serie web che ha ispirato il suo fortunato esordio letterario: Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera (SEM, 2017), vincitore del Premio Bagutta Opera Prima.

Giusy Giulianini

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