Le streghe bruciano al rogo – Maria Letizia Grossi



Maria Letizia Grossi
Le streghe bruciano al rogo
Giunti
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Ci sono storie che, più di altre, provocano una forte immedesimazione, sebbene parlino di omicidi e di antiche superstizioni. Trame così distanti da profiler americani e serial killer, eppure appassionanti, proprio perché tutte italiane e altamente genuine.
Le streghe bruciano al rogo di Maria Letizia Grossi ne è un esempio, dato che davanti ai nostri occhi sfilano anni di storia, con alberi genealogici di intere famiglie.
Perché in ogni casa, in ogni dinastia, c’è una vicenda da raccontare. Una leggenda metropolitana dalla quale partire. E se poi ci si mettono anche i luoghi suggestivi dell’Irpinia, la miscela è esplosiva.
La commissaria Valeria Bardi è a capo della Squadra Mobile di Firenze. Una cinquantenne alta e robusta, che deve fare quotidianamente i conti con diversi problemi. All’immagine competente e sicura di sé, che mantiene sul lavoro, si affastellano i fantasmi di un corpo appesantito con l’età, nonché un approccio negativo con una figlia ventenne e particolarmente ribelle, che subdolamente le rinnova l’onta del fallimento di un matrimonio. E non esattamente in quest’ordine. 
La linea perduta non la ferma, anzi, se c’è una cosa che la caratterizza è l’essere una buona forchetta. Quando le si presenta del cibo davanti, la commissaria Bardi non si fa certo pregare.
E qui si esce dallo stereotipo della protagonista perfetta e inappetente, che “sbocconcella” appena, qua e là, per ritrovarsi di fronte a una personalità autentica, che tranquillizza il lettore. Ispira fiducia, neanche a dirlo.
Ne sa qualcosa l’ispettore Manuele Belgrandi, che dalla commissaria è attratto. Sempre sul punto di dichiararsi, bene si amalgama al carattere ruvido di lei. In questo senso, i due creano una bella sinergia.
In un giorno di pioggia, la scrittrice Eugenia Ortesi si presenta in commissariato, a Firenze, per denunciare di avere ricevuto una lettera minatoria. Una strana cartolina: da un lato la frase sibillina “le streghe bruciano al rogo”, dall’altro uno scorcio di Ripalta, paesino dell’Irpinia. La commissaria ne rimane particolarmente turbata, perché anche lei, come la sua interlocutrice, è cresciuta da quelle parti. La sua potente memoria le ricorda altresì il dossier di un omicidio, avvenuto tempo prima a Ferrara, in cui la vittima di un incendio aveva ricevuto il medesimo messaggio.
È solo un’intuizione, però la commissaria Bardi si aggrappa alla convinzione che in giro ci sia qualcuno che infierisce sul sesso femminile. La scrittrice Ortesi invece minimizza e, nonostante le venga sconsigliato, si reca proprio in quel paesino, Ripalta, probabilmente la tana del lupo, dove lei e la sua famiglia hanno avuto i natali. In particolare dove viveva, in tempo di guerra, Eva, una donna additata come una strega e costretta ad andarsene.
Valeria Bardi diventerà una sorta di angelo custode, pronta a scendere nel profondo abisso della superstizione e della pazzia, pur di salvare vite umane. 
Alle donne maltrattate e uccise, alle donne che riprendono in mano la loro vita.” È la splendida dedica dell’autrice, che racchiude il senso della storia. Contro secoli di oscurantismo, è bello battersi per fini comuni.
Nonostante il pericolo sempre in agguato, perché una mente criminale e pazzoide trama nel buio, si sperimenta il dolce calore del ritorno a casa. Come la commissaria Valeria Bardi e la scrittrice Eugenia Ortesi, anche il lettore si culla nell’atmosfera nostalgica di un rifugio. 
“Un paese vuol dire non essere soli”, diceva Pavese ne La luna e i falò. E l’autrice lo ha riportato. Una frase che squarcia la coscienza. Un nido dove muovere i primi passi, che ci ha visto andare via. Per poi accoglierci a braccia aperte, ogniqualvolta decidiamo di tornare.

Cristina Biolcati

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