L’estate che cambiò tutto



Beth Lewis
L’estate che cambiò tutto
La Corte Editore
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Basta un’estate, una torrida estate, per cambiare la vita di John, Jenny, Rudy e Gloria che, poco più che bambini, scoprono per caso il cadavere di una ragazza nelle acque del Lago, accanto al Nido, il loro luogo segreto, dove si incontrano tutti i giorni per stare insieme e dimenticare l’infelicità che segna le loro giovani vite. Ė John a raccontare le vicende del ritrovamento di Mora, così hanno chiamato la ragazza uccisa, di cui nessuno, nemmeno lo sceriffo, sembra interessato a trovare l’assassino. Saranno i nostri quattro protagonisti a cercare di renderle giustizia, andando a ficcare il naso in segreti che, una volta portati alla luce, devasteranno e rivoluzioneranno le loro vite.
Beth Lewis descrive un’America profonda, quella di Steinbeck, simboleggiata dalla cittadina agricola di Larson, delimitata dalle distese a perdita d’occhio di mais e dal falso perbenismo dei suoi abitanti, che vedono i loro figli partire patriottici ed entusiasti per la guerra nel Vietnam e poi tornare, quando riescono a tornare, mutilati nel corpo ma soprattutto nell’anima. Neppure questo comune dolore riesce, però, a smuovere l’oscurità e la violenza che permea buona parte dei cittadini, specialmente le figure che più dovrebbero proteggere la comunità, come il sindaco, il pastore, lo sceriffo. Lentamente, per John e i suoi amici, la scoperta del cadavere si trasforma nella scoperta del buco nero che è la loro città, e ogni principio etico e morale vacilla per poi crollare miseramente.  L’estate che cambiò tutto della Lewis è una metafora della violenza adulta che profana l’originaria e naturale innocenza dei piccoli, violenza che scardina dall’interno tutti quei valori che, ipocritamente, gli adulti ostentano di incarnare e difendere.
John, narratore e protagonista, cerca invano un punto fermo dove ancorarsi, qualcuno che gli confermi quegli ideali di giustizia e di generosità a cui la sua anima infantile aspira con tenacia, ma non trova altro che una madre alcolizzata e sconfitta, in grado di trasformarsi in un mostro di rabbia e ferocia, e dei padri-piccioni, saltuari compagni della donna, che volano via non appena il ragazzo comincia a provare dell’affetto per loro. Le altre figure che dovrebbero proteggerlo, i rappresentanti della legge, dello stato, della religione, hanno un’anima torbida e nera, ben mascherata da una melliflua bontà.
La Lewis tratteggia un’America malata, apparentemente lontana nel tempo, ma in realtà attuale e contemporanea, un’America intrisa di ottusità, depravazione e ferocia spietata. Vengono in mente due film: Stand by Me, di Reiner, per il racconto di formazione e di crescita dall’infanzia all’età adulta dei quattro protagonisti, e Il cacciatore di Cimino, per la demistificazione della guerra in Vietnam. Memorabili le parole dell’insegnante di geografia, pacifista, che spiega a John perché gli americani chiamino i vietnamiti musi gialli: per non vederli come persone e non farsi prendere dalla compassione. Si può provare rimorso nell’ammazzare un uomo, non certo un muso giallo.
In mezzo a questi cuori di tenebra, spiccano la limpidezza e la generosità dei quattro amici; le cicatrici, fisiche e psicologiche, che li segnano, non bastano a silenziare il loro desiderio di un’esistenza più umana e civile. La loro meta diverrà così fuggire da Larson, la loro felicità sarà vedere il mondo, quanto è grande e quanto diverso dalle miserie e dal marciume di Larson.
Con perizia descrittiva, la Lewis trasporta il lettore nella calura spossante delle distese interminabili, gialle di sole e di mais, del Midwest, segnate dalla fatica umana e da una natura rigogliosa ma capricciosa.
Nonostante la tragicità sempre più smisurata degli eventi, che giungerà all’apocalisse finale, l’autrice non abbandona i suoi protagonisti alla disperazione, anzi li rende portavoce di un messaggio di speranza e di un inno al candore dell’infanzia. Guardando a quello che ci sta succedendo intorno, forse, davvero, saranno i bambini a salvarci.

Donatella Brusati

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