Lo chiamavano Tyson – Mauro Valentini



Mauro Valentini
Lo chiamavano Tyson
Armando Editore
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Ci sono due vecchi arnesi di borgata romana, una villa apparentemente anonima dell’Eur e l’umanità un po’ criminale e un po’ disperata che gravita attorno a un bar nei pressi di Viale Cristoforo Colombo. Attorno a questi tre punti cardinali si dipana la vicenda raccontata in “Lo chiamavano Tyson”, il romanzo d’esordio di Mauro Valentini, giornalista noto per articoli e saggi dedicati ad alcuni importanti casi italiani di cronaca nera.
Tyson, al secolo Fausto Colasanti, è un cinquantenne che ha mandato in malora ogni occasione concessagli dalla vita, di conseguenza si ritrova a vivere di lavori saltuari, pagati in nero, se va bene. Ma c’è una ragione più importante se il romanzo di cui è protagonista s’intitola “Lo chiamavano Tyson”: Colasanti porta quel soprannome sin da ragazzino in ragione dell’aspetto, ma soprattutto della furia violenta che scatena sul nemico del momento quando qualcosa non va per il verso giusto.
Il picchiatore, che però è anche un grande fan degli Jethro Tull e di tanti altri gruppi rock, riceve, assieme all’amico Alcide Pennello, l’incarico di sorvegliare la casa del Commendatore Peroni. Si tratta della dimora di un palazzinaro di nobile stirpe, una magione circondata dal verde, soprannominata Villa Azzurra, che custodisce ricchezze immense ed è difesa da un particolare sistema di sicurezza. 
Dato questo intreccio iniziale, le pagine di “Lo chiamavano Tyson” si riempiono di una lunga serie di personaggi, descritti efficacemente da Valentini, legati in un modo o nell’altro alla Colombo e al bar nelle sue vicinanze, il Porto Alegre, ritrovo di ragazze disinibite, manovalanza criminale di origine straniera, picchiatori di borgata interessati a tatuaggi, palestre, mezzi da corsa e, in primo luogo, rapine.
In una sorta di cocktail narrativo al gusto di noir, thriller, pulp e grottesco il suddetto microcosmo umano, abitato da eterni segregati ai margini, comincia a interagire, stimolato dalle ricchezze nascoste nei meandri di Villa Azzurra, e moltiplica, in tal modo, gli elementi d’instabilità e le esplosioni di violenza. 
Come in una discesa incontrollabile, i personaggi di “Lo chiamavano Tyson” continuano la parabola verso il fondo, in una cruda allegoria della vita in una metropoli asfittica come Roma. Uomini e donne incrociano le loro strade nel racconto, scegliendo sempre e inevitabilmente e la via sbagliata. Il freddo risultato della fusione fallita tra queste esistenze al limite non salva nessuno. Tutti insieme si ritrovano immersi in uno stesso oceano. Quello degli sconfitti.   

Thomas Melis

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