Macbeth



Jo Nesbø
Macbeth
Rizzoli
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Un progetto decisamente ambizioso anche per un autore del calibro di Nesbo, sfornatore di best seller autentici, le cui cifre di vendita, cioè, non sono gonfiate per ragioni di marketing.
Norvegese di nascita, cittadino del mondo per elezione, Jo Nesbo piace  perché i suoi romanzi, decisamente nordici per l’ambientazione e il substrato culturale a cui appartengono i personaggi, hanno in realtà  un respiro universale nel senso che gli argomenti che costituiscono l’ossatura su cui si reggono le trame potrebbero calzare su tutti i paesi del pianeta, esclusi forse quelli islamici . Proprio come le opere del Bardo, fra le quali spicca proprio la tragedia Macbeth, da sempre la più vicina, antropologicamente e culturalmente, ai sentimenti più profondi, oscuri e distruttivi  del mondo occidentale.
Macbeth di Shakespeare declina sostanzialmente gli effetti tossici della smania incontenibile di potete di coloro che si trovano ai vertici senza possedere i requisiti morali indispensabili per governare con equità e giustizia: personaggi acclamati all’inizio  che poi  finiscono per anteporre il proprio interesse privato al bene pubblico.
Lo stesso fa quest’opera, costruita interamente sull’ossatura della tragedia fino al punto da sacrificare, a tratti, la verosimiglianza, condizione indispensabile perché un romanzo risulti credibile fino in fondo e questo sarebbe  un difetto se l’eleganza dello stile non guidasse i lettori, incalzandoli, dalla prima  all’ultima riga.
Con Jo Nesbo è sempre così: le sue storie, crudeli e nerissime, conducono per mano fino alla tragedia finale e anche Macbeth,  nonostante  parta già da un gradino molto alto nella scala dell’angoscia, non fa eccezione.
Qui il protagonista non è un re, ma un alto funzionario del sistema anticrimine di una città che, geograficamente e culturalmente,  è modellata su diverse realtà. Ha infatti
le caratteristiche climatiche di una tipica cittadina norvegese come Bergen, ma politicamente e antropologicamente somiglia alla Detroit postindustriale, come anche a Manchester o a Manhattan.
La storia è collocata negli anni 70, che furono turbolenti dappertutto ma particolarmente presso le democrazie più avanzate.
I personaggi portano gli stessi nomi di quelli che si muovono nella tragedia Shakespeariana e, in una certa misura, ne rivestono più o meno anche gli stessi ruoli e dunque l’epilogo non può essere che catastrofico e sanguinoso. Tuttavia il fatto di sapere in anticipo “come andrà a finire” non toglie suspence all’azione, tutt’altro.
In sostanza, questa trasposizione in chiave di stretta attualità di un’opera scritta sei secoli fa, è un “esperimento” riuscito anche se i nomi shakespeariani a tratti disorientano i lettori.
Nel complesso si tratta, dunque, di un gran bel romanzo ma anche di un esercizio ben riuscito di psicologia antropologica, adattabile al tempo che stiamo vivendo e sul quale  bisognerebbe riflettere.

Adele Marini

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