Metti una sera a Milano con Gianrico Carofiglio…Intervista a più voci

Durante Bookcity abbiamo avuto il piacere di passare un po’ di tempo con Gianrico Carofiglio che si è sottoposto di buon grado a un fuoco di fila di domande di Carla Colledan, Mangialibri e Veleni e antidoti, Cecilia Lavopa, Contorni di Noir, Sabrina de Bastiani, Thrillernord e ,ovviamente, Milanonera.

41IlKgRcDlL._SX317_BO1,204,203,200_Mi ha colpito molto il fatto che nel libro  l’imputato venga condannato (in primo grado no spoiler ndr) senza che venga minimamente cercata l’arma del delitto? Non è un elemento piuttosto importante ?
In un caso come quello descritto non è indispensabile. Gli indizi che possono portare alla condanna possono essere di qualunque tipo, ci sono processi, che ovviamente sono un po’ più difficili degli altri, in cui manca addirittura il corpo della vittima. Io una volta mi occupai di una strage di mafia, in cui i corpi delle vittime non furono mai più ritrovati, anche dopo che un pentito ci disse che li avevano bruciati insieme a dei copertoni. Noi andammo a fare il sopralluogo nella discarica ed effettivamente trovammo pezzetti di carte d’identità, un pezzetto di arcata dentale e basta.

Confrontandoci con Cristina Aicardi – MilanoNera – abbiamo avuto l’impressione di avere letto due libri diversi. Partendo dal presupposto che lei non ha letto i primi e io invece li ho letti tutti, ho avuto l’impressione di un Guerrieri pacificato con la vita, più sereno, meno cupo. Un uomo risolto, uno che dice “sono arrivato a cinquant’anni, ho fatto una serie di cose, alcune buone alcune meno, ma va bene così”. Cristina, invece, ha proprio avuto la sensazione di un uomo che fa fatica a riconoscersi…
Le due cose non si escludono, credo che la chiave interpretativa, anche di questo apparente disaccordo, sia in quella citazione che lui fa a un certo punto, quella di Keats  della capacità negativa, della capacità di accettare l’ambiguità. In realtà le due cose coesistono tranquillamente, uno può essere adulto e risolto nella consapevolezza che la risoluzione vera non esiste mai, che è sempre una situazione precaria. Quindi, essere risolti può essere la capacità di accettare la precarietà come condizione comune.  Secondo me avete ragione entrambe.

Sempre a proposito del riconoscersi, proprio all’inizio del romanzo, dici : ognuno ha qualcosa che lo identifica, anche un oggetto. Qual è l’oggetto che ti identifica?
Le penne. Quando sono in giro e sono nervoso o anche particolarmente sereno, mi compro un libro o una penna, anche se ne ho davvero tanti e tante. Compro anche quaderni, non li ho citati perché ne ho un tale numero che mi costringe a censurarmi e a non comprarne altri. La situazione poi è stata aggravata dalla partecipazione (abbastanza assidua) del programma di Lilly Gruber, dove ad ogni puntata regalano agli ospiti un taccuino, per cui ne ho una montagna. 

Una frase che c’è nel libro e mi piace riportare prima della domanda, “smettere di fare quello che fai quando ti accorgi di avere esaurito la voglia di farlo o le forze, o quando ti accorgi di avere raggiunto i confini del tuo talento  Tutto ciò che viene dopo quel confine è ripetizione”. Come vive le ripetizioni l’avvocato Guerrieri?
Le vive con insoddisfazione, questo certamente sì, con la voglia di fare altro, che è un po’ la cifra stilistica del personaggio. Quella è una frase categorica, in cui credo fino a un certo punto. In molti casi è giusto che uno continui a fare quello che fa, anche se con qualche rimpianto. Come nei rapporti personali, è chiaro che dopo tanti anni ci sono dei momenti di esasperazione, ma questo non significa che si debba per forza divorziare . Guerrieri li vive così, com’è raccontato. Però sono abbastanza convinto che se uno avesse il coraggio, quando si accorge di non avere più stimoli, di fare altro, non sarebbe male. Sarebbe come rinascere e questo ci riporta anche su quello che c’è alla fine del libro, allo stupore della vita che accelera dopo una certa età. La vita accelera con l’età ed è una cosa che appiattisce. Io quando ho cominciato a scrivere,  ho avuto la sensazione nettissima che la vita decelerasse, mi sono sentito più giovane e non è mica male, eh. Tra l’altro, la frase è una citazione da un altro mio libro, “Le tre del mattino” che è un libro sul talento, sulla capacità di seguire il talento. C’è una frase di Erica Jong che dice: il talento non è poi così raro, quello che è raro, è il coraggio di seguire il proprio talento.

20191115_201953Come vivi le critiche?
Non c’è dubbio che le prime facciamo male, poi col tempo si impara a trasformarle  in benzina. L’esperienza in questo campo è di aiuto Gli scrittori, come dice Stephen King che nel libro è citato senza citarlo, sono bisognosi di approvazione, quindi quando non ti approvano o addirittura ti stroncano, tanto bene non la prendi.

Io sono rimasta entusiasta di come in questo romanzo, hai maneggiato il tempo, perché credo che tu abbia veramente utilizzato una serie di livelli multistrato che si prestano a una grande  quantità di letture. Già a  partire dal titolo, secondo me il tempo è veramente l’ago della bilancia: ci sono il passato, il presente, il tempo processuale e il tempo che un innocente passa in carcere. Hai gestito magnificamente questa sovrapposizione. Non c’è un momento del libro in cui ci si trovi spaesati, lo dici più volte, sono ricordi sfumati, non sai nemmeno se sono in sequenza. Questo contrasta con quello a cui  per professione un avvocato deve attenersi: i tempi processuali
Moltissimo del senso del libro si gioca su questa contraddizione. Nasce proprio da questa idea.Prima ancora del processo volevo raccontare la ricomparsa di questa donna, che era stata uno shock nella  vita di Guerrieri, non so se dire un innamoramento un’ infatuazione ma comunque importante perché l’ha traghettato da ragazzo a uomo. Tutto il resto è venuto poi, anche il figlio. Pensavo a come mettere insieme lo spaesamento, il non riconoscimento. Una cosa importante del libro è come lui la guarda, gli sembra diversa e poi si domanda se in realtà lei non sia uguale e sia diverso il modo in cui lui la guardava allora e la guarda adesso. E io questo volevo raccontare.

Guerrieri non si vedeva da  un pezzo, avevi altro da raccontare o è stata una scelta diciamo commerciale?
Qualcuno mi ha chiesto come mai lo abbia recuperato, ma io in realtà non ho mai pensato di metterlo da parte. Ho scritto molte altre cose, ma è stato naturale perché siccome io sono affezionato al personaggio, come molti lettori, questo affetto fa sì che io non scriva troppe cose di lui, perché poi il rischio è che si impoverisca, che diventi una figura stereotipata, che perda profondità. È considerato il personaggio di una serie ma per me questi libri non sono una serie, sono come dei capitoli di un macroromanzo che racconta lo sviluppo del personaggio, però per raccontare lo sviluppo è necessario anche avere una storia da raccontare.

Sei contento che libri con una costruzione così complessa, con una così grossa parte di introspezione psicologica, vengano classificati come legal thriller?
Io penso due cose. intanto un aneddoto: quando scrissi Testimone inconsapevole, diciassette anni fa, tutto pensavo tranne che fosse un legal thriller. Credevo di aver scritto un romanzo di formazione di un uomo che sbatte contro la vita,  contro la sua mediocrità, che appartiene a tutti, e che poi trova se stesso in un’avventura processuale che è in realtà un espediente. Il senso di quel libro era dato dalla frase che c’è in epigrafe, quella di Lao Tze “quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo la chiama farfalla” . Quando il libro uscì, cominciarono a parlare di legal thriller, in particolare Augias fece questa recensione, il miglior giallo legale mai uscito in Italia. Una cosa che fa piacere ma, ovviamente, ha dato una specie di marchio. Quello che successe subito dopo, cioè le vendite, mi indusse a una certa flessibilità. Alla fine però, come diceva Chesterton, i libri si dividono in due categorie, quelli scritti bene e quelli scritti male. Il genere, l’etichettatura, è un modo per avvicinare poche o tante persone alla lettura e va bene così. Ci sono anche libri commerciali, ma la differenza è questa: anche se è un buon prodotto artigianale che vende magari milione di copie, quando hai finito di leggerlo, dopo una mezz’ora, non ti ricordi più niente, faccio l’esempio di Grisham, persona deliziosa e incredibile creatore di storie, a cui dei personaggi però  non frega assolutamente niente, quindi un tipo di lettura di intrattenimento, al limite di denuncia, ma fine a se stessa. Per me, la differenza vera è fra i libri che quando li finisci son finiti e quelli che quando li hai finiti cominciano…

Possiamo dire che come autore preferisci che rimanga il personaggio anziché la trama?
La trama è un oggetto meccanico, uno strumento. Ovviamente deve essere buona, perché se non funziona ti toglie il gusto di leggere, ma è davvero solo lo strumento che ti consente di parlare di altre cose. Quindi la trama deve essere buona: è necessario essere un costruttore molto abile, non  ci devono essere contraddizioni deve essere qualcosa che fila come un meccanismo ad orologeria.

Parlando di costruzione della trama, c’è una frase del libro che mi ha colpito e che dice più o meno che un bravo avvocato usa gli elementi emersi nell’istruttoria per costruire una versione plausibile… Praticamente è la stessa cosa che fa uno scrittore.
Certamente, infatti un bravo magistrato un bravo giudice, un bravo investigatore è quello che è capace di ricostruire storie. In base al ragionamento retroattivo, prendi l’indizio fai un’ipotesi te lo spieghi e hai la storia di come potrebbero essere andati i fatti, fa parte della riflessione giuridica, proprio la riflessione sugli indizi è molto affascinante.

Come si riesce a non entrare troppo nel tecnico, in un romanzo dove il processo è al centro.
Questa era la scommessa, prendere una cosa ultratecnica come le questioni giuridiche e renderle fruibili

Guerrieri come tutti i lettori, usa le librerie come ansiolitico, quando non riesce a dormire  ha però l’abitudine di tirare mattina all’”Osteria del caffelatte”, il proprietario dice che i suoi clienti sono tutti dei tipi bizzarri. Cosa rappresenta la notte per l’immaginario di Guerrieri e per tutti quelli che non si sentono rappresentati dalla quotidianità? E soprattutto, esiste un’Osteria del caffelatte?
Esiste nel senso che io l’ho messa in un posto preciso dove in realtà c’è qualcos’altro, quindi nel mio territorio parzialmente immaginario esiste, perché creare dei posti in contesti del tutto realistici ma che non esistono, per me è come creare delle porte girevoli, fra il mondo del realismo e il mondo del realismo magico, della fantasia. La notte è il luogo della sovversione diciamo, mi ricordo un’attrice che diceva, pianificate accuratamente le vostre giornate e per la notte, affidatevi alla fantasia. Ecco, poi il contrasto luce buio è un contrasto che ha a che fare con un diverso atteggiamento nei confronti del reale. Quella libreria è come un santuario laico di questa
sovversione.

Grazie e Gianrico Carofiglio e alla Einaudi per la disponibilità.

Cristina Aicardi

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