Passione Reporter



Daniele Biacchessi
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“Ci sono giornalisti giornalisti e giornalisti impiegati”. E’ curioso, aprire con una frase tratta da un film, Fortapash, che racconta la vita e la morte del cronista de Il Mattino Giancarlo Siani. Ma qui, in Passione reporter, il vicecaporedattore di Radio24, Daniele Biacchessi fa altri nomi e altri esempi. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Mogadiscio, 1994), Raffaele Ciriello (Ramallah, 2002), Maria Grazia Cutuli (Kabul, 2001), Antonio Russo (Tiblisi, 2000) e Enzo Baldoni (Najaf, 2004). Tutti morti mentre facevano il loro mestiere, “consumando le suole delle scarpe”, magari pagando la missione con propri mezzi, dividendo spese altrimenti proibitive con altri colleghi.

Biacchessi, accanto al suo autografo, sulla mia copia del libro ha scritto: “Per non dimenticare”. Già, perché l’Italia è un Paese dalla memoria corta ed è un Paese in cui manca l’indignazione. L’indignazione che ogni persona dovrebbe provare ascoltando le parole dell’avvocato Carlo Taormina, presidente nel 2006 della Commissione d’inchiesta sulla morte dei due giornalisti. “La gente deve sapere che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non erano depositari di alcun segreto nelle materie che un giornalismo d’accatto per dodici anni ha invece tentato di propinare. E’ falso che i due giornalisti fossero a conoscenza di cose inenarrabili nei campi della cooperazione, del traffico d’armi, del trasporto di rifiuti.(..) I due giornalisti nulla mai hanno saputo e in Somalia (..) passarono una settimana di vacanza conclusa tragicamente”. Strano che l’opinione pubblica non si sia indignata quando esistevano ed esistono prove dell’indagine che la giornalista stava mandando avanti sui traffici d’armi, sulle convenienze dei servizi segreti e sulle malefatte della Cooperazione italiana in Somalia. O che non si sia indignata difronte al depistaggio mediatico, condotto da Carlo Farina, nome in codice Betulla vice direttore di Libero e fonte riservata del Sismi riguardo la morte di Enzo Baldoni.

C’è un fil rouge che collega i familiari delle vittime dello Stato, quelle del terrorismo, quelle del lavoro o quelle dei reporter che in nome di un’informazione vera hanno dato la vita. Una frase mi ha colpito quando ho letto Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi: “Lo Stato poteva fare di più”. E’ la stessa frase che ricorre, anche se in sfumature diverse, nelle testimonianze dei genitori di Ilaria Alpi o Raffaele Ciriello: “siamo stati abbandonati dallo Stato”, “La magistratura non ha fatto indagini appropriate, “dalle istituzioni abbiamo avuto solo molti onori”.

Biacchessi, raccontando la storia di Laura, una giornalista alle prime armi, ci regala un ritratto familiare dei reporter: Ilaria, Maria Grazia, Enzo, Raffaele, Antonio, sembrano nostri amici. Le loro storie, le loro inchieste, la loro morte, vengono raccontate con estrema empatia, con grande capacità di sintesi e senza retorica. Senza quella retorica tipica di un Paese che piange i suoi “eroi” solo dopo la loro morte, quando invece prima erano considerati personaggi scomodi ciarlatani e, addirittura, “imbrattacarte”. Un libro da leggere, per non dimenticare e per avere quella “sana spinta ad incazzarsi” e a cercare la verità.

Perché ha deciso di scrivere questo libro?

Fondamentalmente per due motivi. Per provocare l’indignazione, soprattutto quella manca a molti giovani, affinché capiscano che non esistono le “verità ufficiali”, che anzi, spesso esse servono solo  a depistare o a coprire qualcuno. E per ricordare che non ci sono misteri in queste storie, ma è tutto così chiaro e palese. La cosa inquietante è che non esiste la volontà di cercare la verità, soprattutto quella giudiziaria. Il presidente Napolitano ha fatto appello a tutti i giornalisti affinché “tengano la schiena dritta” e non si accontentino delle mezze verità. Ecco, questo libro vuole dare quella sana spinta ad incazzarsi e cercare la verità.

Cosa avevano di speciale la Alpi e tutti gli altri?

Erano persone normali e speciali al tempo stesso, non solo perché hanno fatto delle cose speciali, ma sopratutto perché sono andati a cercare la verità sul posto, indagando, consumando le suole delle scarpe. Hanno fatto il loro mestiere restando a schiena dritta, andando dietro la notizia. Questo è l’insegnamento che ci hanno lasciato. Mi piace pensare che raccontando di queste storie del passato che non hanno avuto giustizia ho provocato una forte indignazione nei confronti delle nuove generazioni. Perché Laura che è la protagonista di questo libro è una ragazza come te e come tanti altri giovani che non hanno il tesserino da giornalista, che non hanno l’iscrizione all’albo. Sta a noi e a voi darci e darvi la possibilità di fare questo mestiere. Rompendo le caste e dare alle nuove generazioni la possibilità di fare questo mestiere e di farlo seriamente.

Cosa i giornalisti possono fare per cambiare questa situazione?

Dobbiamo avere la possibilità di fare questo mestiere a schiena dritta, senza fare sconti a nessuno. Il 12 dicembre del 1969 c’è stata la strage di Piazza Fontana. Gli apparati dello Stato fin dalle prime ore diedero la colpa agli anarchici e arrestarono Pietro Valpreda. Ora, se non ci fossero stati giornalisti del calibro di Giorgio Bocca, Corrado Staiano, Giampaolo Pansa, che alle conferenze stampa avevano cominciato ad esprimere dubbi su quella pista, probabilmente Valpreda sarebbe morto in carcere e non riconosciuto innocente. La polizia, la magistratura hanno cominciato ad indagare perché c’erano stati giornalisti che avevano iniziato a scrivere, avevano cominciato a guardare oltre, a porsi dei dubbi. Ecco il segreto sta nel non credere alle verità ufficiali. Noi dobbiamo fare una cosa: tirare dritto, andare a verificare. Perché tu, sia che scriva per una piccola rivista o per un blog, hai una possibilità e quindi un dovere in più. Puoi telefonare al capo della Polizia o al questore, puoi assistere alle conferenze stampa, puoi accedere ai documenti, quindi hai un ruolo consistente all’interno della società, rispetto ai comuni cittadini. Hai così una responsabilità doppia: quella di essere giornalista e quella che hai nei confronti dei tuoi lettori.

Quando c’è stata, se mai c’è stata in Italia, la stagione del grande giornalismo investigativo?

Certo che c’è stata: è iniziata negli anni settanta con con Bocca, come accennavo prima, e fino al decennio successivo. Poi dal 1994 in poi, ma questo già avveniva verso la metà degli anni Ottanta, il giornalismo italiano ha subito influenze dal potere politico e da quello economico.

Esistono ancora giornalisti che lavorano così in Italia?

Fortunatamente sì. Penso a Milena Gabanelli e al lavoro che fa a Reporter, a Riccardo Diacono o alle inchieste di Carlo Bonini su La Repubblica.

Cosa consiglia ai giovani che vogliono fare i giornalisti?

Devono tenere presente che i lettori sono esclusivamente gli unici editori, sono cioè quelli che magari non ti pagano direttamente lo stipendio, ma alla fine te lo pagano perché quando un domani decideranno di non seguirti più, non sarai più letto, non sarai più ascoltato o visto.

Quali sono i prossimi appuntamenti con il tour dello spettacolo tratto dal suo precedente lavoro Il Paese della vergogna?

Stasera siamo a Milano alla Camera del Lavoro, domani a Legnano e il 29 Pavia. In maggio sarò il 2 a Bonassola, il 6 a Motta Visconti, l’8 alla Feltrinelli di Bologna. Il 9 mattina a Modena ci sarà la prima “L’ultima bicicletta” su Marco Biagi, e la sera sarò con Gang, con la quale ho appena finito di girare un dvd, che è prenotabile sul mio sito, che contiene scene e quadri teatrali e brani del gruppo.

francesca colletti

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