Luigi Pirandello progenitore del Giallo?

Lo spunto iniziale a un abbozzo di ricerca in questa direzione ci è venuto da alcune affermazioni critiche che abbiamo riscontrato per caso a proposito di grandi firme del Giallo straniero, cronologicamente successive a Pirandello e senza rapporti diretti con lui. Possiamo partire, al riguardo, da Il ritratto di Elsa Greer (Five little pigs, 1943) di Agatha Christie, nota indagine su un delitto avvenuto sedici anni prima, che è stato definito come una “pirandelliana e intrigante retrospettiva di un omicidio” (1). Oppure, passando dal mystery inglese al noir americano, etichette non diverse sono state attribuite a David Goodis o a Jim Thompson (quello di Getaway), padri narrativi di protagonisti similmente falliti, perdenti, disperati: uno dei quali, il Frank Dillon di Diavoli di donne di Thompson (A hell of a woman, 1954) – che si sente perseguitato dalla sfortuna e dal destino e che in questa malasorte trova giustificazione ai propri delitti – vede le donne della sua vita alternativamente come fragili creature bisognose di aiuto e d’amore o come diaboliche messaline, “fino al delirio conclusivo, in un surreale gioco pirandelliano tra realtà e fantasia, tra verità e menzogna, tra razionalità e follia” (2). Senza contare – per passare a giallisti di casa nostra, più o meno anomali e sempre posteriori – la pirandellianità, talvolta apertamente dichiarata, di Gadda, Sciascia, Bufalino e Camilleri, gli ultimi tre accomunati a Pirandello anche dalla sicilianità. Basti ricordare, con le parole di un critico, nel dialogo drammaticamente più alto del Giorno della civetta di Sciascia (1961), “la relativistica e pirandelliana affermazione di don Mariano sulla verità (che non esiste e non si può raggiungere)” (3):
“La verità è nel fondo di un pozzo; lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna, ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.”
“Lei ha aiutato molti uomini” disse il capitano, “a trovare la verità in fondo a un pozzo.”
E Camilleri?
“Dico sempre che quando ho le pile scariche vado da Sciascia e Pirandello, i miei elettrauti, e mi rileggo un loro libro.” (4
Ma al di là delle comuni radici genetiche o culturali o filosofiche – che legano Camilleri a Pirandello, o Sciascia a Pirandello (come si vedrà alla fine) – ci sembra legittimo porre queste domande: può esser giustificato, in qualche modo, vedere in Pirandello un precursore o progenitore del “genere” Giallo in Italia? Può esser ravvisato – nei suoi romanzi, nelle sue novelle o nel suo teatro – l’uso di tecniche narrative costitutive o essenziali al romanzo giallo italiano? Può individuarsi, nel pensiero pirandelliano, la presenza di concetti o teorie alla base della struttura stessa del romanzo giallo?
Qui esaminiamo brevemente tre aspetti: l’impiego della suspense, il tema della maschera, il relativismo della verità.
Per l’uso della suspense, partiamo da Il treno ha fischiato… (5). Storia di un semplice, anziano impiegato, Belluca, che per tutta la vita ha svolto una mansione ripetitiva e umile e che all’improvviso, ad apertura di racconto, impazzisce e viene ricoverato, senza plausibile motivo, dicendo egli solo “Il treno ha fischiato”, questa novella ha una strategia narrativa “da giallo” che procede attraverso numerose analessi. Grazie a questa tecnica, che informa per gradi il lettore sugli antefatti, l’autore, pur senza intenzione di creare un racconto di suspense nel senso attuale del termine, s’è tuttavia avvalso di elementi in grado di suscitare curiosità e attesa, e quindi tensione e sospensione emotiva. La stessa interpretazione dei fatti, inizialmente a più voci, non chiarisce, anzi complica l’enigma. Infatti da un lato l’avvio della vicenda in medias res con le supposizioni dei colleghi sulla presunta pazzia di Belluca, dall’altro le anticipazioni del narratore-testimone – che al contrario definisce “naturalissimo” il singolare comportamento del protagonista – stimolano una curiosità che nasce dal divario tra le ipotesi dei colleghi ignari e la verità a cui il narratore allude con alcune anticipazioni (o indizi), ma che ancora non svela.
Un altro elemento basilare della suspense è l’introduzione di pause, descrittive o riflessive, che dilatano il tempo narrativo e rimandano lo scioglimento dell’enigma (una tecnica che troverà ancor più accentuato impiego nel teatro pirandelliano). Ulteriore elemento che acuisce la curiosità del lettore è il titolo particolare, Il treno ha fischiato… (coi tre puntini sospensivi), che sembra inizialmente non avere nessun rapporto con la vicenda, che a lungo non fornisce al lettore niente di risolutivo (pur facendogli percepire che si tratta di un indizio che può avviarlo alla soluzione) e svela il suo senso solo al termine della novella: com’è noto, infatti, questo disgraziato contabile, legato alla catena di una schiavitù soffocante, vittima paziente e quasi ignara fino a quel fischio liberatore nella notte, è stato appunto risvegliato all’improvviso dal fischio di un treno di passaggio e per la prima volta s’è visto vivere, s’è accorto che oltre gli angusti confini della sua quotidiana galera c’è il mondo, la vita degli altri, il treno che corre e corre, mentre lui è là, fermo, chiuso nella sua trappola. Non a caso, dunque, un critico attento come il Debenedetti ha definito questa novella come “imparentata al giallo” (6).
Ne Il giuoco delle parti (7), invece, la suspense è affidata allo svolgersi della trama, divisa in due parti da un evento thriller e avviata a uno scioglimento finale imprevedibile, quasi in anticipo sulla definizione del Giallo ottimale secondo Sciascia (consistente nella capacità di tendere il più lungamente possibile il mistero e, appunto,  nell’imprevedibilità dello scioglimento conclusivo (8)). Una donna, Silia, viziata e insoddisfatta, non sopporta più il marito Leone, uomo freddo e calcolatore, razionale e cinico, da cui vive già separata, e cerca quindi di convincere l’amante Guido a ucciderlo. L’occasione si presenta quando quattro uomini, tra cui un marchese, irrompono ubriachi nella casa di Silia; lei allora con l’inganno si fa dare dall’illustre disturbatore il biglietto da visita e con questo ricatta il marito, obbligandolo (in quanto marito) a un duello per onore. Nella seconda parte, però, trionfano la calcolata razionalità e la voluta indifferenza di Leone, il quale, meravigliando tutti, accetta di sfidare colui che ha oltraggiato la donna, ma al mattino del duello si guarderà bene dal battersi, convincendo invece proprio Guido, in qualità di amante, a scendere in campo. E quest’ultimo, per una cosa nata quasi per scherzo, perderà la vita, ma così doveva essere perché così sono le regole del “giuoco delle parti”.
Ne L’uomo dal fiore in bocca (9), come ne Il treno ha fischiato…, sono ancora l’uso sapiente delle pause – che via via si fanno più numerose e significative e sottolineano l’anomalia del protagonista parlante – e il titolo straniante e incomprensibile, che reggono da soli il peso della suspense: in un caffè anonimo di una stazione ferroviaria di provincia (un non-luogo) un misterioso “uomo dal fiore” avvicina in modo cortese ma stranamente insistente un “pacifico avventore” che ha perduto l’ultimo treno della notte, gli fa domande, si interessa alla sua vita che non ha misteri, e alla fine di un dialogo che si fa sempre più monologo inquietante rivela la sua verità di malato incurabile di tumore cutaneo (epitelioma, “tubero violaceo”: il fiore in bocca, appunto), costretto ad attaccarsi con l’osservazione, ma anche con l’immaginazione, alla vita degli altri per convincersi che quella vita che lui dovrà lasciare fa solo schifo, ma non ci riesce, perché il gusto della vita ognuno di noi ce l’ha in fondo alla gola e non può negarne il fascino nemmeno a se stesso.
Se l’Uomo dal Fiore porta già una maschera – che la malattia s’incarica però di strappargli dal volto – l’Enrico IV dell’omonima tragedia (10) si conferma come portatore ancor più evidente di questa tematica potenzialmente da Giallo: durante una festa mascherata, o cavalcata storica, organizzata tra esponenti dell’alta società cui lui stesso appartiene, il protagonista (travestito da Enrico IV in quanto la marchesa Matilde Spina, amata da lui invano, aveva assunto la parte di Matilde di Canossa, nemica dell’imperatore tedesco) cade da cavallo, batte la testa e al risveglio si crede realmente Enrico IV; viene quindi internato come pazzo e, prigioniero della sua follia, vive così per dodici anni, accudito da servi opportunamente istruiti e vestiti come lui in abiti medievali. Quando si apre il sipario, vent’anni dopo l’evento, un nipote, Carlo, è venuto a compiere un estremo tentativo di guarirlo, accompagnato da un medico, da Matilde, da Tito (suo antico rivale in amore e ora fortunato compagno della donna) e da Frida, loro figlia e fidanzata di Carlo, il quale si presenta allo zio in costume medievale per studiarne le reazioni. Ma da otto anni Enrico non è più pazzo, ricorda tutto, sa che la sua caduta non fu accidentale ma provocata da Tito; e tuttavia finge di esserlo ancora, per la disperazione d’essersi ritrovato al risveglio ormai vecchio, escluso dalla vita. Il rinchiudersi nello spazio irreale e senza tempo della pazzia è diventato così per lui l’unica possibilità di essere se stesso, di salvarsi dalla rapina del tempo. Sotto la maschera dell’imperatore antico ha cercato di costruirsi una forma immutabile (rinunciando a vivere), una salvezza dal caos dell’esistenza. Ma quando il medico gli fa riapparire davanti all’improvviso Matilde e Frida, somigliantissima alla madre  qual era al tempo della giovinezza, per procurargli uno choc che rimetta per lui in movimento il tempo, avviene la catastrofe. La Matilde di adesso non rappresenta più nulla per lui, la Matilde di allora è la Frida di adesso, ed è Frida che vuole; così, quando tenta di abbracciarla – per desiderio istintivo, incoercibile di riafferrare la vita perduta – Tito, impressionato, si frappone fra di loro, e allora Enrico lo trafigge con la spada di scena, per ritrovarsi alla fine da solo a riprendere per sempre la recita della simulata follia: una maschera ora non più liberamente scelta, ma imposta dalle leggi della convivenza (e convenienza) sociale.
Il tema della maschera risulta centrale, dunque, nella poetica pirandelliana: noi stessi indossiamo, o la società ci impone, una maschera, un ruolo, un’identità, che continuiamo a portare per anni, finché arriva un momento, il momento della verità (paura, diagnosi, malattia, sentenza, scelta, ricatto, caso…), in cui ce la dobbiamo togliere o la vita ce la strappa, e allora riveliamo il nostro vero io (vigliacchi, coraggiosi, ecc.). Ci piace accostare, al riguardo, due testi teatrali in tre atti, pur distanti un decennio, Come prima, meglio di prima (11), in cui tutto gravita sulla frattura fra l’identità reale del personaggio di Fulvia (una donna dalla vita disordinata, corrotta, che passa da un’avventura all’altra con ansia di evasione e insieme di mortificazione) e quella fittizia, assunta per costrizione sociale e vissuta come dolente limite e prigionia, e Come tu mi vuoi (12), ispirato forse a un fatto di cronaca che fece molto scalpore, quello del famoso “smemorato di Collegno”, da cui Pirandello riprendeva appunto il tema dell’amnesia e della possibile impostura giocata su di essa.
La maschera appare quindi estremamente funzionale al genere del Giallo, in quanto ripropone l’essenziale enigmaticità o ambiguità dell’essere umano, comune anche al Simenon di Maigret nel momento in cui contrappose l’uomo “vestito” (nella società) all’uomo “nudo” (nella sua verità eterna), primitivo, ammalato di nevrosi, che non trova il proprio posto (come i personaggi di Pirandello o Svevo) e che alla fine uccide anche per questo, e che va quindi non giustificato, ma umanamente compreso.
Ultimo concetto da esaminare, il relativismo della verità: cioè l’inattingibilità, da parte dell’uomo, di una verità definitiva. E qui, brevemente, si potrebbe portare ad esempio una commedia “sperimentale” come Ciascuno a suo modo (13) – con la precarietà di ogni conoscenza e la riduzione della verità a pura opinione soggettiva (e col “processo” in scena che rimane interrotto) – e soprattutto Così è (se vi pare) (14), col mistero di tre personaggi enigmatici (trasferitisi in un’imprecisata cittadina dopo che un terremoto ha distrutto il paesino della Marsica in cui abitavano), uno dei quali non verrà mai identificato (“Per me, io sono colei che mi si crede”). Per questo Così è (se vi pare) è stato definito dalla critica “un giallo senza soluzione, che evidenzia il relativismo pirandelliano, mettendo in dubbio la stessa categoria di identità e verità”. E ancora: “In quest’opera c’è una continua suspense e forse non è irriverente configurare Pirandello come progenitore di un certo noir moderno. Semplicemente, invece dell’assassino, si cerca la verità” (15). (Se ci allarghiamo incidentalmente al campo del cinema, un film come il giapponese Rashomon di Kurosawa – o il suo remake americano L’oltraggio di Ritt, con Paul Newman – dove la verità in bocca a ogni personaggio appare sempre più relativa, non ha forse legami tematici assai stretti con questo teatro di Pirandello?). E sempre a proposito della verità, Pirandello non può essere considerato un vero nichilista, perché i nichilisti escludono che esista una verità, mentre il drammaturgo siciliano intende la verità come qualcosa di instabile, relativo, ma tuttavia esistente. Pirandello insomma rifiuta il dogmatismo, ma non rinuncia alla ricerca della verità, intesa come conflitto di diverse interpretazioni: non esiste, quindi, una verità assoluta, ma esistono tante verità in relazione alla condizione storica e all’interpretazione dei vari gruppi sociali. Ed è proprio questo, in fondo, che il Giallo assume e fa suo: il rapporto dialettico fra un’apparenza, che si ricopre fittiziamente di tutti gli attributi del reale, e una realtà che rivela la propria infondatezza e arbitrarietà (riducendosi dunque, essa stessa, a puro apparire). E qui la prospettiva pirandelliana delle multiple verità diviene molto stimolante, o addirittura fondamentale, per altri giallisti anomali della nostra narrativa, come il Gadda del Pasticciaccio  e soprattutto Leonardo Sciascia, dal Giorno della civetta e A ciascuno il suo, fino a Il contesto o Todo modo, di volta in volta simbolici e cifrati, parodici o inconclusi, con una fisionomia eterodossa che parte, sì, dal Giallo, il genere narrativo più conforme, col suo codice poliziesco, a intenti razionalistici e chiarificatori, ma finisce per sovvertire la struttura e la funzione logico-investigativa del genere stesso, stravolgendone le regole combinatorie e alterandone il codice espressivo (del mystery, almeno), allo scopo di rappresentare la spietata sintassi del Potere.
Tramite il Giallo, insomma, Sciascia dipana le indagini oltre la detection di partenza, e poiché l’enigma non è “problema” in sé, ma esito di una condizione politica e sociale, è il Giallo stesso a farsi politica, filosofia o metafisica, allontanandosi sempre più dai confini classici del genere. Non è casuale, del resto, l’attrazione di Sciascia per autori che della detection hanno fatto un uso eterodosso come lui, a partire da Borges o Gadda. “Gadda ha scritto – affermò fra l’altro – il più assoluto giallo che sia mai stato scritto, un giallo senza soluzione” (16). Mancanza di soluzione che significa anche, nella poetica di Sciascia,  piena assunzione della prospettiva pirandelliana del gioco delle parti, delle multiple verità (17). Ponendo in discussione una giustizia ormai incapace non solo di perseguire il colpevole, ma anche di distinguerlo dall’innocente, Sciascia esprime infatti le contraddizioni tra l’ideale illuministico-positivista del Giallo e la visione pirandelliana della vita, con prevalenza conclusiva, ideologica, di quest’ultima. E proprio la trama irrisolta – coi delitti impuniti, l’investigatore sconfitto e il lettore inappagato – iscrive i gialli di Sciascia nella categoria alta del romanzo “problematico” (secondo la vecchia definizione di Umberto Eco), la cui catarsi non concilia il lettore con se stesso, ma al chiudersi della storia gli apre un problema.

N O T E

 1) S. Tassara, I dieci migliori gialli di Agatha Christie, in Uno studio in giallo, 4-VI-2013, wordpress.com

2) L. Volpatti, introduzione A J. Thompson, Vita da niente, Milano, Mondadori, 1990, p. VI.

3) Così da registrazione della tavola rotonda del 21-I-2015 presso l’ITCG Matteucci di Roma (con P. Milone, V. Vecellio, M. Gemelli, R. Priore) su Verità e giustizia nell’opera di Sciascia, ora sul sito www.itcgmatteucci.it/didattica

4) M. Pistelli, “Montalbano sono”. Sulle tracce del più famoso commissario di polizia italiano, Firenze, Le Càriti, 2003, p. 58.

5) Sul “Corriere della Sera”, 22-II-1914, poi nella raccolta La trappola, Milano, Treves, 1915.

6) G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, p. 324.

7) Dramma in tre atti, tratto dalla novella Quando s’è capito il giuoco (“Corriere della Sera”, 10-IV-1913), rappresentato il 6-XII-1918 al teatro Quirino di Roma e pubblicato sulla “Nuova Antologia” nel 1919.

8) Si legga l’introduzione di Sciascia ad A. Christie, L’assassinio di Roger Ackroyd, Milano, Mondadori, 1975.

9) Nato come novella, Caffè notturno, in “Rassegna Italiana”, 15-VIII-1918 (poi, col nuovo titolo La morte addosso, nella raccolta Il silenzio delle Novelle per un anno, Firenze, Bemporad, 1923) e rappresentato come atto unico, L’uomo dal fiore in bocca, il 21-II-1923 al teatro degli Indipendenti di Roma.

10) Enrico IV, tragedia in tre atti, scritta nel 1921, rappresentata il 24-II-1922 al teatro Manzoni di Milano ed edita a Firenze nello stesso anno.

11) Rappresentato il 24-III-1920 al teatro Goldoni di Venezia e pubblicato a Firenze da Bemporad nel 1921.

12) Rappresentato il 18-II-1930 al teatro dei Filodrammatici di Milano e ivi pubblicato nello stesso anno.

13) Messa in scena il 22-V-1924 al teatro Filodrammatici di Milano ed edita a Firenze da Bemporad nello stesso 1924.

14) Commedia in tre atti (desunta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, scritta probabilmente nel 1915) rappresentata il 18-VI-1917 al teatro Olympia di Milano e pubblicata sulla “Nuova Antologia” nel gennaio 1918.

15) G. Previti, Così è (se vi pare), in  Almanacco del giallo e del noir 2013,  2014, p. 48. Ma cfr. anche G. Savatteri, Pirandello detective? Così è (se vi pare), Noir Festival, Courmayeur, 2004.

16) Così Sciascia in Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, p. 231.

17) Lo stesso Sciascia, infatti, intervistato: “Si potrebbe dire di me che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco” (a M. Padovani, La Sicilia come metafora, Milano, Mondadori, 1979). Ma già un lettore attento come Italo Calvino, in un giudizio privato del 10-XI-1965 su  A ciascuno il suo ancora in bozze (uscirà nel 1966 per Einaudi): “Caro Leonardo, ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano. E’ insomma un ottimo Sciascia, che si affianca al Giorno della civetta e lo supera, perché c’è più ironia, perché la presenza del nume tutelare Pirandello non è affatto marginale…”

 

Luigi Guicciardi

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