Pupi Avati: fra la via Emilia e il Midwest – seconda puntata

PUPI AVATI, FRA LA VIA EMILIA E IL MIDWEST – Seconda puntata
Di Enrico Luceri

Con le successive pellicole, Avati definisce sempre più nitidamente la sua personalissima tematica, di cui si scorgono in filigrana solo pochi aspetti nei primi due film.

15778È del 1976 La casa dalle finestre che ridono, il capolavoro assoluto del filone horror-thrilling del maestro bolognese, ormai del tutto a suo agio anche in una cinematografia molto diversa, quella intimista, un po’ nostalgica e un po’ cinica, in bilico sul filo dei ricordi filtrati dagli anni trascorsi. Due piani paralleli – e dunque destinati a non incontrarsi mai – ma la fantasia dello schermo stravolge le regole della geometria, e forse la fantasia dark e quella elegante e delicata condividono la stessa fonte di ispirazione, quella tradizione contadina e provinciale intrisa di sensazioni forti e grottesche, trasognate e violente, esagerate e spaventose, come le ombre sui campi al tramonto del sole.

1952: giunto in un paesino della Bassa Padana per restaurare l’affresco di una chiesa, Stefano scopre ben presto che sui luoghi grava un’atmosfera malsana, dove il terrore di alcuni alimenta la malvagità di altri. Incurante della sotterranea ostilità degli abitanti, che sembrano nascondere un segreto spaventoso, il giovane prosegue contemporaneamente il suo lavoro sull’affresco e la ricerca della verità sulla personalità dell’autore, detto “il pittore delle agonie” perché spinto da un’ispirazione torbida e inquieta a ritratte gli ultimi istanti di vita delle persone, forse non tutte morte per cause naturali.
Ormai Stefano si è spinto troppo in là e si può fidare, pensa, solo della timida maestrina di cui si è innamorato, e del parroco don Orsi, per scoprire se davvero le malvagie e depravate sorelle del pittore, ritratte nell’affresco, siano vive e dietro quale identità si nascondano. Vi riuscirà ma, gravemente ferito, riuscirà a stento a trascinarsi fino alle soglie della canonica dove…

Pupi Avati parla chiaro fin dalla prima sequenza: una scena virata seppia in cui un corpo sanguinante, appeso per i polsi, si contorce negli spasimi dell’agonia, mentre il pittore Buono Legnani lo ritrae sussurrando con voce roca frasi smozzicate in preda all’eccitazione. Subito dopo, con deciso contrasto, la macchina da presa indugia sulle rive del grande fiume: acque placide e filari di pioppi, un paradiso bucolico dove la paura dovrebbe affiorare solo nelle favole inventate per incutere timore ai bambini. Il regista costruisce una trama naïf, che pare fatta apposta per ruotare attorno a un pittore così perverso da sembrare il fratello cattivo di Ligabue, fulcro di una famiglia in cui i vincoli di sangue rendono ancora più tenebroso il delirio incestuoso delle due sorelle.
Da un soggetto scritto con il fratello Antonio e sceneggiato con il fido Gianni Cavina e Maurizio Costanzo, Pupi Avati dipinge sulla pellicola un quadro a tinte forti, dove horror e thrilling si fondono con rara efficacia: voci gracchianti che biascicano al telefono minacce di morte, tende che si scostano per gettare occhiate fugaci a chi si avventura di notte per vicoli deserti, imposte cigolanti, testimoni che precipitano nel vuoto gettando urla disperate prima di poter parlare, o che annegano nella acque del fiume, in tutte le possibili declinazioni degli stilemi classici del thrilling. Poi lame che affondano nelle carni di corpi appesi, rivoli di sangue che si coagulano ai piedi delle vittime, cadaveri immersi nella formalina, una vanga che alla luce livida di un fanale scava nel terreno umido facendo riaffiorare ossa e teschi, case immerse nelle tenebre dove si aggira qualcuno, malgrado l’unica abitante sia una vecchietta paralizzata: tutto nella migliore tradizione dell’horror.
E a legare le atmosfere, un sottile ma solido filo di macabro e grottesco, come la scena con il frigorifero vuoto in cui si annidano decine di lumache, o le fantasie gastronomiche del “bollitore di topi”, retaggio di un’epoca neanche tanto lontana in cui la fame costringeva a scelte nauseanti. Forse, e non sembri un’esagerazione, solo Fellini ha saputo creare una serie di “maschere” che caratterizzano le sue storie, tanto da diventarne parte integrante, come quelle presenti nei film di Avati: il disarmante Lino Capolicchio, la tenera e indifesa Francesca Marciano, e poi lo spiritato Giulio Pizzirani, il burbero Ferdinando Orlandi, l’istrionico Gianni Cavina e il piccolo Bob Tonelli.
Un film di luoghi oscuri, come i recessi più nascosti dell’anima. E quando sorge il sole sulla pianura e sugli argini del fiume, ci si accorge che i suoi sono raggi malsani, che abbacinano e non illuminano, bruciano e non scaldano. In seguito il regista alternerà al cinema e alla televisione storie intimistiche e trame thrilling e horror, lanciando a briglia sciolta la sua fantasia, alimentata dalle storie contadine della sua infanzia e adolescenza, ma è con questo film che pone le basi per realizzare, anni dopo, il sinistramente visionario Zeder. Resterà impressa nella memoria collettiva degli ammiratori dell’horror padano di Pupi Avati, la vocina della vecchia costretta nel letto che intona una canzone in portoghese, rivelando così la sua vera identità. Una scena senza sangue, effetti speciali e musiche martellanti, ma per molti addetti ai lavori una delle più riuscite e spaventose della storia del thrilling.

Continua…

 

 

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