I racconti della Confraternita di Radeschi

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di

Giuliano Gargano

Era già capitato più di una volta, e i risultati – dal punto di vista professionale – non erano stati proprio indimenticabili. Per esempio, mi ero sentito un pesce fuor d’acqua quella volta che il Corriere mi aveva inviato alla serata della Rendal Chemical all’Expo. Mi era andata bene (lo so, sono cinico) soltanto perché quell’evento mondano si era trasformato in un episodio di cronaca nera.
Beppe Calzolari, caporedattore di nera, lo aveva rifatto. “Sono i 25 anni di attività di questa storica azienda milanese. Loro realizzano le camicie per una importante maison, e hanno organizzato una festa per celebrare l’anniversario. Oh, Radeschi, è una cosa facile facile. Qualche intervista ai capi dell’azienda, qualche foto ed è fatta. Magari trovi pure una fidanzata tra tutte le modelle che saranno presenti, té capì?”.
Era stato l’accenno alle modelle a farmi vacillare. Effettivamente era da un po’ troppo tempo che non si batteva chiodo. In pubblico potevo darmi sempre un tono: le inchieste per il Corriere, il mio blog Milanonera. E avvolgevo sempre in un manto di mistero le mie consulenze con le forze dell’ordine (anche perché non potevo mica raccontare in giro che facevo il lavoro sporco per la polizia, in campo informatico, in cambio di qualche esclusiva!). La verità è che  sembravo proprio invisibile per le ragazze milanesi. Soprattutto quando – per fortuna raramente – trascorrevo la serata con Loris Sebastiani, il vicequestore con il quale collaboravo: lui sì che era una calamita per il genere femminile, soprattutto quello under 30. La sua era una scelta ideologica: basta storie serie dopo il divorzio con la moglie, bensì solo ragazze giovani, carine e disponibili.
Era stata proprio la speranza di rifarmi un po’ che mi aveva convinto ad accettare. Non sapendo che stavo per affrontare un girone dell’inferno dantesco. A partire dall’abbigliamento: la mia giacca di velluto, il mio jeans, la mia camicia azzurra e le Clarks ai piedi sarebbero state adeguate per una serata all’insegna della moda? E soprattutto, la schiera di modelle cosa avrebbe pensato di me?
L’inizio non era stato dei più incoraggianti. Dopo aver legato con un catenaccio il mio Giallone ad un palo della luce, mi ero messo alla ricerca di tale Mario Gatti, l’addetto stampa dell’azienda. Ma era stato lui a trovarmi. Avevo sentito un urletto stridulo risuonare per tutta la sala: “Enriiiicooooo – con un tono di voce tra la Marcuzzi e Sandra Milo – sei arrivatooooo?”. Camicia bianca sfiancatissima, aperta su un petto pallido ed emaciato, maniche arrotolate, polsi carichi di braccialetti di tutte le forme e materiali, pantaloncini e scarpe di vernice costituivano la mise di Gatti. I suoi baffetti appuntiti sembravano un disegno posticcio su un viso che non c’entrava niente, tipo quelli di Duchamp sulla Gioconda. Completava il personaggio una collezione di orecchini, frutto, sicuramente, di un furto in una ferramenta, visto che erano almeno 20 per orecchio.
La sua stretta di mano molliccia, accompagnata dalle parole “sono Mario, e sono un po’ pazza” erano state come una doccia gelata. Mi ero guardato intorno e all’improvviso avevo messo a fuoco tutti gli ospiti. Abbigliamento, movenze, risatine: ero l’unico eterosessuale nel raggio di 2 chilometri.
Mentre Mario, la Pazza, mi portava nell’ufficio dell’amministratore delegato per l’intervista, due pensieri occupavano tutto il mio cervello. L’odio per Calzolari e il terrore che potesse succedere qualcosa. Le prese in giro di Sebastiani, se mi avesse visto in questo consesso, sarebbero durate per anni e anni.
Oh, sia chiaro. Io sono di ampie vedute. E Milano è una città aperta, moderna. Ma mi sentivo come un tifoso dell’Inter, con tanto di maglia nerazzurra, allo Juventus Stadium, nella curva bianconera.
L’AD aveva un aspetto non proprio sobrio, nel suo doppiopetto rosso con i bottoni bianchi. La camicia bianca – di un bianco abbagliante, prodotta dall’azienda stessa – aveva i bottoni dello stesso rosso della giacca. “Sono la Pimpa”: mi aspettavo che mi salutasse così. “Sono l’ingegner Patrizi” aveva detto invece, con voce bassa e pacata. Seduto dietro un tavolo di vetro ricoperto di carte, fissava il grande schermo del computer, la cui cornice era ricoperta di post-it di tutti i colori. Mentre Mario raccontava a Patrizi chi ero e cosa facevo, segnalando con orgoglio che sul Corriere era già uscito un ampio pezzo sull’anniversario (mentre invece, anche se mi ero guardato bene dal dirglielo, era uno spazio redazionale, quindi pagato da loro), l’amministratore delegato ascoltava distrattamente. Nei suoi occhi potevo leggere una tensione particolare. Mi chiedevo come mai non si godesse la festa con tutti gli altri, come mai quei numeri che scorrevano sul monitor fossero più importanti delle celebrazioni che, a occhio e croce, avevano richiesto una grossa organizzazione e un bel dispendio di denaro.
Dopo qualche domanda alla quale aveva risposto quasi controvoglia, Patrizi mi aveva congedato. “Devo controllare alcuni conti, sa. Un AD ha delle responsabilità. Vi raggiungo tra poco in sala per il brindisi”.
Ero già stufo morto di essere lì. Piluccavo finger food dai vassoi. Gli stuzzichini avrebbero meritato un’inchiesta: c’erano dei panini microscopici, il cui diametro era sì e no quello dell’unghia del mio alluce, con dentro una fettina di cetriolo e una rondella di formaggio. Pensavo con nostalgia alle rosette con la soppressa che avevano accompagnato le poche conferenze stampa che avevo seguito nella Bassa, prima di trasferirmi a Milano.
Per fortuna la serata stava per volgere al termine. Mario Gatti era andato a chiamare Patrizi per il brindisi. Ma dopo pochi istanti un urlo lancinante aveva squarciato l’aria. Alcune persone erano corse verso l’ufficio dell’amministratore delegato. Patrizi era ai piedi della scrivania di vetro. Una grossa macchia rosso scura imbrattava sia la camicia che la giacca, all’altezza del cuore. Gatti era inginocchiato al cadavere, in lacrime. “Ingegnere, risponda. Non può abbandonarci”.
Con la macchinetta digitale avevo scattato subito qualche foto, che probabilmente avrei potuto usare sul blog o con il Corriere. La polizia era arrivata in pochi minuti. La scena del crimine era stata abbastanza compromessa da Gatti, che si era letteralmente gettato sul cadavere, ma la dinamica era abbastanza chiara: Patrizi era stato colpito con una lama (un coltello, un tagliacarte?) mentre si trovava in piedi di fronte al suo assassino. Ora bisognava scoprire chi era, e perché l’avesse fatto.
“Avevo sempre sospettato che fossi finocchio, visto che non ti ho mai visto con una ragazza. E infatti ti trovo qui”. Sebastiani mi aveva sussurrato all’orecchio il suo personale saluto, mentre mi superava per avvicinarsi al cadavere. Abito grigio antracite, capelli gellati, un sigaro spento all’angolo della bocca, il vicequestore sembrava un divo di Hollywood. Si muoveva con sicurezza nell’ufficio di Patrizi, fotografava con gli occhi tutti i particolari.
“Riunite tutti i presenti nella sala, raccogliete le generalità e aspettatemi lì, che tra poco cominciamo con gli interrogatori”, aveva ordinato ai suoi uomini. Mentre l’ufficio si svuotava, Sebastiani si era avvicinato a me. “Saltiamo i convenevoli, Radeschi. Ora io prendo gli uomini della scientifica e li porto in una stanza qui vicina, con la scusa di fare il punto. Avrai dieci minuti scarsi per entrare nel PC di Patrizi e vedere se c’è qualcosa di interessante. Ah, mettiti i guanti mentre usi la tastiera: non voglio rotture di scatole con i colleghi, niente impronte”. “Ma se trovo qualcosa posso usarlo per il mio blog?”, avevo chiesto subito. “Dipende, Radeschi, dipende. Magari non dico in giro che sei passato dall’altra sponda”.
Era il suo modo – almeno spero – per dirmi di sì. Appena l’ufficio si era svuotato, mi ero messo davanti al computer di Patrizi, che era ancora acceso. La navigazione era stata veloce, agevolata dal fatto che i post-it sui lati del monitor erano state come le molliche di Pollicino, e mi avevano messo sulla strada giusta. Una schermata mi aveva rivelato contemporaneamente l’assassino e il movente. Potevo fermarmi qui, ma la tentazione di mettere a frutto anni e anni di esercizi di hackeraggio era troppo forte. L’unico problema era il tempo. Mi ero buttato a capofitto nella procedura, scrivendo quasi in trance una stringa di comando. Dalla stanza vicina percepivo che la riunione era agli sgoccioli. Avevo premuto sul tasto Invio e avevo incrociato le dita, avviandomi verso la sala.
“Dove vai, Radeschi?”. Alle mie spalle Sebastiani mi puntava con il suo sigaro. Avevo interpretato il movimento del mozzicone come un invito a entrare in un altro ufficio. “Allora, c’è qualcosa?”. Ora avevo io il pallino in mano. “Può essere, Loris. Ti racconto tutto se mi prometti due cose: che mi permetterai di scrivere un articolo per il Corriere”. Sebastiani aveva mosso il sigaro da un estremo all’altro della bocca. Era un silenzioso sì. “E la seconda? Dai che non posso tenere tutte quelle persone in sala fino a domattina”. “Ok Loris: niente battute su questa festa, sugli ospiti e su Mario la pazza”. “E chi è Mario la pazza?”, aveva prontamente ribattuto Sebastiani, sorridendo perfido.
“Va bene Loris – avevo abbozzato – ecco la soluzione del caso. Che è un caso di omicidio e di doppio furto”.
L’attenzione del vicequestore era massima. Il sigaro si muoveva vorticosamente da un capo all’altro della bocca. “Patrizi – scandisco – aveva accumulato in questi 25 anni delle ingente somme, che non risultavano a bilancio. Piccole cifre alla volta, ricavate da impercettibili modifiche sulle metrature dei tessuti acquistati, sui resi, sui materiali usati per i campionari. Non ti dico poi i margini ottenuti quando aveva esternalizzato in Romania parte delle lavorazioni. Questo gruzzoletto era conservato nelle pieghe della contabilità, a suo esclusivo uso e consumo. Solo che stasera Patrizi si è accorto che quel capitolo era completamente vuoto. Ha chiamato il capo-contabile, l’unico che poteva aver capito cosa fosse successo. Il ragioniere Poloni effettivamente si era accorto di tutto. Proprio oggi aveva prosciugato il capitolo e aveva predisposto un transfert su un conto alle isole Cayman. Mi è bastato navigare nella rete interna dell’azienda per scoprire questo movimenti. Il faccia a faccia tra i due – entrambi colpevoli, uno di furto all’azienda, l’altro di furto del furto – si è risolto a favore di Poloni, che ha colpito a morte Patrizi”.
Sebastiani stava metabolizzando le informazioni. “C’è un’altra cosa, Loris. Ho provato a bloccare il transfer e fare rientrare la cifra nella disponibilità dell’azienda. Sai, ho pensato a tutti i lavoratori, le famiglie…”. “E bravo Robin Hood. Così io come faccio a dimostrare tutto quello che mi hai raccontato?”.  Avevo la risposta pronta. “Beh, ci sono le tracce di tutte le transazioni. E poi ho fatto in modo che non tutta la cifra fosse recuperata”.
“Te la sei incassata tu, Enrico? Guarda che è un reato, non posso coprirti”.
“Tranquillo Loris, non ho preso un euro per me”. Sebastiani aveva ormai quasi consumato il suo sigaro. Aveva sbuffato ed era tornato in sala per arrestare Poloni. Avevo assistito a tutta la scena e scattato qualche foto del ragioniere bloccato dai poliziotti. Sebastiani si era allontanato con una stangona bionda al braccio, sicuramente una delle mannequin ospiti della serata, affascinata dalla velocità con cui il poliziotto aveva risolto il caso. Anche stasera 1 a 0 per lui.
“Sono Radeschi”.
“Ma chi, il generale?”.
“Quello era Raderzky, era austriaco ed era un feldmaresciallo. E oggi avrebbe 250 anni. Può passarmi don Lino?”.
Ogni volta, con la perpetua del mio prete preferito, era la stessa storia. Non sono molto religioso, ma don Lino, il parroco di Capo di Ponte Emilia, aveva sempre creduto in me, mi aveva incoraggiato a intraprendere la strada del giornalismo, e più di una volta mi aveva aiutato.
“Che piacere sentirti, Enrico. A proposito, tu sai niente di una misteriosa donazione benefica anonima arrivata alla parrocchia?”.
“Assolutamente no, don Lino”, avevo mentito.
“Beh, Enrico, sappi che se la loro provenienza non è legata a qualcosa di criminale, il donatore non ha commesso peccato”.
“Se dovessi scoprire chi è stato, glielo riferirò, don Lino”.
“Bravo Enrico. E grazie”.

 

 

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