Saggio su Jean-Claude Izzo – 3.2 Rematori della galera

L’autore marsigliese, che già nella sua vicenda biografica porta il
seme di un sentire universale -nasce a Marsiglia da padre italiano e
da madre di origine spagnola-, propone al lettore un percorso reale e
possibile per imparare a condividere i luoghi spaziali, culturali e
ideali delle città.
Chourmo, titolo del secondo romanzo della trilogia noir, significa in
provenzale ciurma,  rematori della galera.
Nella cité marsigliese, racconta Izzo con scrupolo da cronista,
nasceva negli anni novanta un circolo di incontro, dall’idea di alcuni
giovani di periferia (arabi e francesi), chiamato Chourmo; esso
proponeva varie attività d’aggregazione dai gruppi musicali, al
notiziario, dall’organizzazione di viaggi a basso costo alle
manifestazioni.
Il progetto scaturiva dalla volontà di colmare un vuoto relazionale,
di creare un collante sociale laddove lo Stato aveva fallito e di
diffondere un sentimento di appartenenza che andasse oltre il fragile
e discriminatorio sentire nazionale.
«A Marsiglia, le galere, le conoscevamo bene. Per finirci dentro non
c’era bisogno, come due secoli fa, di aver ucciso il padre o la madre.
No, oggi bastava essere giovane, immigrato o non. […]. Lo scopo era
che la gente si incontrasse . Si “immischiasse” come si dice a
Marsiglia. Degli affari degli altri e viceversa. Esiste uno spirito
chourmo. Non eri di un quartiere o di una cité. Eri chourmo. Nella
stessa galera, a remare. Per uscirne fuori. Insieme».
Esempi di aggregazione spontanea sorgono un po’ ovunque, non solo a
Marsiglia, e non solo in Francia. Remare assieme obbliga ad ascoltare
il respiro degli altri, a vivere in simbiosi, a sentirsi un unico
corpo. La galera è un riparo dal disagio urbano, è il rifugio di
esistenze che in città sarebbero solitudini di una folla anonima e
ostile.
Non è solo una questione urbanistica, di periferie degradate e
inospitali, ma anche -e soprattutto- sociale e di integrazione.
In Europa stiamo assistendo al consolidamento, e in alcuni casi alla
nascita, di organizzazioni partitiche ambiguamente refrattarie sia ad
interpretare i fenomeni culturali legati ai flussi migratori sia ad
adottare soluzioni politiche che non ledano la dignità dell’uomo.
 Piuttosto si alzano muri altissimi -non solo in senso figurato- che
chiudono le comunità, le rendono inaccessibili all’incontro, si adotta
una retorica di esclusione e contrapposizione, si dà sfogo a pulsioni
disgreganti, al limite della xenofobia. Queste sono le minacce contro
cui remare e contro cui i personaggi dannatamente umani di Izzo hanno
consumato sogni e speranze.
Roberto Escobar, filosofo e critico cinematografico italiano, offre
-forse senza neanche conoscere l’autore marsigliese, a dimostrare
l’esistenza di una profonda tradizione culturale che unisce molti
pensatori del secolo scorso- un valido supporto intepretativo, in
stile saggistico e accademico, ai temi narrativi di Izzo, offrendo una
chiave di lettura importante della società contemporanea.
 Ne “La metamorfosi della paura” di Escobar emerge, ancora
rivelatrice, la metafora marinaresca, e il Mediterraneo, inteso come
cerniera delle culture millenarie del nostro tempo.
«La barca è piena: il nostro spazio domestico – l’immagine che abbiamo
dell’Europa, del nostro borgo, del nostro quartiere – ci appare come
una scialuppa fragile e stracolma, che fatica a contenere gli europei
e che per di più è presa d’assalto da milioni di naufraghi che
vorrebbero salirvi condannandola ad affondare. Insieme, però, ci
tormenta lo spettro del calo demografico. La contraddizione non ci
crea problemi. Anzi, con la sua ambiguità rafforza il panico: loro
crescono senza freni; noi – italiani, tedeschi, francesi… –
invecchiamo, ci estinguiamo. […]. Quanto più una civiltà si chiude,
quanto più si difende, tanto meno ha da difendere. I barbari veri non
vengono da fuori: sono dentro di noi da sempre».
In questo senso, Montale, in Chourmo, confessa la necessità di fare
pulizia nella propria mente e nel proprio cuore, di estirpare il fiore
del pregiudizio e dell’odio che coltiva nel fondo del proprio essere.
Solo allora, potrà e “potremo fare degli sforzi per sopravvivere”.
Continua…

giancarlo briguglia

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