Un giorno perfetto

Il cinema italiano non è in salute se riempie le sale, lo è se le riempie per grandi film.
Io non amo particolarmente il cinema di Ozpetek, mi pare un marchingegno strutturato per far sentire gli spettatori “intelligenti, buoni e profondi”. A tratti il suo cinema mi infonde l’idea di una lussuosissima scatola vuota o un corpo senza sangue, se preferite. Ed è un peccato perché non mancano al regista de “Le fate ignoranti” intuizioni geniali (Kevin, il bambino che canta “Brucia la città” di Irene Grandi, è una boccata d’aria a pieni polmoni). Di “Un giorno perfetto” ho letto recensioni a tratti mirabolanti. Poi l’ho visto. Non cambio idea, ben sapendo che posso sbagliare e che il recensore di mestiere “giudica” quindi si espone per default all’errore. Gli attori sono tutti bravissimi, Mastandrea, la Ferrari, il superlativo Binasco, la Guerritore elegantemente sotto traccia. La storia è di quelle “giuste”, Ozpetek ha naso per le tematiche che a tratti diventano, forse loro malgrado, mode (solitudine, omosessualità, misticismo…) una bella storia nera, di maltrattamenti e violenza privata. Il tutto, ed è questo che non mi convince, immerso nell’eleganza, nello stile maniacale. Il problema è che se c’è una cosa che il “genere” nero, sia in letteratura o sullo schermo, ha insegnato è il coraggio della semplicità, la forza del brutale, del crudo e freddo. L’eleganza sta nella verità e non ha bisogno di fare un salto dal parrucchiere. Non lo dico io, lo dice Simenon, per restare in Europa ma ne era convinto anche Jim Thompson se vogliamo andare oltre oceano. Così come il volto della donna più bella e più dolente che abbiate visto è perfetto senza trucchi, allo stesso modo la tragedia ha forza quando viene tenuta sul palmo aperto della mano, senza cosmesi, senza chincaglierie. “Un giorno perfetto” è puntigliosamente strutturato per ostentare coraggio, per ricevere pacche sulle spalle e per “emozionare”, ed ha picchi di scaltrezza perbenista o volutamente “cattivista” (che essendo opposti sono la stessa cosa) quasi insostenibili (il finale in cui non si mostrano i volti dei morti, ma si fa ad esempio un primo piano di un oggetto molto caro al bambino è il perfetto esempio della “furbizia” di cui parlavamo). Il tocco della pellicola mi ricordava, a tratti, una qualunque puntata estiva di Studio Aperto con la regia di un antiquario. E questo non credo fosse nei piani di Ozpetek che forse ama troppo la sua bravura e rischia di scordare la forza della storia e dei personaggi. L’impressione è dunque sempre quella di aver a che fare con una narrazione che ostenta il prezzo di ogni cosa ma ne occulta il valore di ciascuna (e questa è ispirata da Wilde, non mia). Peccato perché quella storia, la vicenda di quel giorno, era già “perfetta”.

Il trailer

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