Vox



Christina Dalcher
Vox
Editrice Nord
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Sul sempiterno Wikipedia – e ignoro che cosa mai potrebbe accaderci di terribile se ne venissimo privati –  alla voce “distopia” si legge: società indesiderabile sotto tutti i punti di vista.
E sarebbe davvero indesiderabile e spaventoso un contesto pubblico e privato in cui le donne venissero ridotte, solo per appartenenza di genere, a non poter pronunciare  più di 100 parole al giorno, contro le 16.000 circa di cui sono intessute le nostre relazioni sociali. Pena, una micidiale scarica elettrica dal braccialetto-conta parole che devono portare al polso.
E’ lo scenario che ci propone Christina Dalcher nel suo romanzo Vox (Editrice Nord, settembre 2018), che in questi giorni occupa lusinghieri spazi nelle vetrine delle maggiori librerie, segnalato come novità assoluta: un futuro non poi così lontano, nel quale gli Stati Uniti sono caduti sotto l’egida di un manipolo di fanatici, i Puri, che propugnano principi improntati al maschilismo e al fanatismo religioso, etichettati perfino da Al Jazeera come “i nuovi estremisti”.
Se si pensa che la società nordamericana è da sempre tacciata di impostazione matriarcale, appare evidente quanto sia ardita la metafora al centro di Vox, ridurre le donne al silenzio e costringerle a portare un braccialetto – Taser,
Il sottotitolo, Quando il silenzio è assordante, accosta due termini di significato opposto, attraverso il dotto ricorso a un ossimoro, che ci ricorda come la Dalcher, qui al suo esordio in narrativa, conosca bene la nostra lingua, essendosi laureata in dialetto fiorentino alla Georgetown University negli Stati Uniti e avendo insegnato italiano, linguistica e fonetica, alla City University of London.
La sua protagonista, Jean McClellan, linguista come l’autrice, vive questa tragica realtà con la sua famiglia, un marito e quattro figli, ma è soprattutto il rapporto con l’unica bambina a causarle la sofferenza più struggente, per il futuro di privazioni che la aspetta. Jean, nata e cresciuta in un mondo libero, che ancora adesso si addormenta rivivendo le parole dei suoi amati classici, Dante su tutti, è ora costretta a raccontare alla piccola favole mute e a cantarle canzoncine senza melodia. Se la figlia si sveglia urlando in preda agli incubi, il terrore che artiglia la madre non è solo quello di non poter pronunciare parole per consolarla ma piuttosto che la bambina superi la soglia delle fatidiche 100 e venga zittita da una potente scarica elettrica.  A Jean mancano anche i più piccoli segni della sua precedente libertà espressiva: i portamatite in ogni stanza, i bloc-notes sparsi ovunque, le parole magnetiche da attaccare al frigorifero. Tutto sparito, come il suo account di posta elettronica, il portatile, il passaporto.  Nel suo agghiacciante presente, nemmeno una donna siede più al Congresso e la Bible Belt, la zona super religiosa a sud degli Sati Uniti, si è espansa a dismisura, risparmiando soltanto una manciata di stati, le roccaforti democratiche di California, New England, Washington, e poche altre. Un esercito di maschi bianchi, conservatori ed etero, ha riscattato anni di frustrazioni e senso d’inadeguatezza e ora si erge tronfio, detentore unico di un potere che amministra con fanatico assolutismo, intransigente più di qualunque integralismo islamico.
Al suo fianco, anzi un passo indietro, una schiera di mogli irreggimentate, perfette e inespressive come le donne di The Stepford wives, il film di Frank Oz tratto dal romanzo di Ira Levin La fabbrica delle mogli, nel quale Nicole Kidman si trova esiliata nella cittadina del Connecticut, tra femmine di robotica perfezione.
Per certi versi, il romanzo di Christina Dalcher evoca con potente suggestione un’America riconsegnata al 1984 di George Orwell, in cui telecamere ubiquitarie sono pronte a cogliere qualunque segno di comunicazione anche non verbale. E se si pensa invece che noi oggi viviamo l’era della comunicazione assoluta, nella quale l’espressione di sé è la parola d’ordine, non importa se veicolata da voce, scritti o immagini, si comprende quanto la distopia creata dalla Dalcher possa risultare raggelante.
Nella realtà di Vox le donne che osano ribellarsi al potere assoluto maschile, anche solo rivendicando una sessualità libera e al di fuori del vincolo matrimoniale, vengono punite ed esposte al pubblico biasimo, non marchiate dall’infamante Lettera scarlatta di Hawtorne, ma rasate a zero con tecnica maldestra, pochi ciuffi di capelli a ricordare il vanto della passata bellezza.
Un giorno però, in quel mondo precipitato in un secolo buio, il fratello del Presidente subisce un tragico incidente sugli sci: danni terribili all’emisfero sinistro nell’area percettiva del linguaggio, l’area di Wernicke, lo condannano all’afasia. Jean, specialista brillante prima del nuovo regime, ricercatrice a un passo dall’individuare terapia e area di somministrazione per una miracolosa cura dell’afasia, viene liberata dal suo castello addormentato. E per lei, e le altre donne, si apre una speranza.
Oltre non dirò perché a quel punto il romanzo della Dalcher sfuma dalla denuncia sociale di soprusi, seppure futuribili, al ritmo incalzante di un medical thriller, che si muove tra l’algido nitore di laboratori super accessoriati, che farebbero gola a qualunque scienziato, o dietro le file di una vera resistenza partigiana, intessuta di umana solidarietà, sotterranea ma irriducibile.
Un romanzo originale e acuto, che coglie con sensibilità le ragioni più estreme dell’eterna antitesi tra i sessi. Una scrittura piana e puntuale, nella quale la precisa scelta di una terminologia non roboante e di un periodare semplice acuiscono il vigore della narrazione, anziché sottrarlo.
La Dalcher mette in scena personaggi convincenti e funzionali alla storia, femminili o maschili che siano. Da un lato Jean, la protagonista dallo struggente amore per le parole, e la piccola Sonia, prigioniera da principio del nuovo regime del silenzio ma che poi sboccia alla vita con un inarrestabile e commovente profluvio di fonemi. Dall’altro i detentori del potere, muscolari e retrogradi; il figlio Steven, irresistibilmente attratto dal nuovo regime; l’incolore e codardo marito Patrick; e Lorenzo, per finire, il seduttivo collega italiano di Jean, forse l’incarnazione di qualunque ideale femminile di compagno forte e sensibile: un uomo che sappia non precederci ma che camminarci accanto.
In un’epoca in cui le tecniche di comunicazione e i principi della programmazione neurolinguistica sono assurti a mantra quotidiano, ho trovato la scelta dell’argomento portante di Vox azzeccata e stimolante e la lettura del romanzo un riuscito esempio del connubio che può esistere tra contenuti di rilevanza sociale e narrativa di evasione.

CHRISTINA DALCHER si è laureata in Linguistica alla Georgetown University con una tesi sul dialetto fiorentino. Ha insegnato italiano, linguistica e fonetica in diverse università, ed è stata ricercatrice presso la City University London. Vive negli Stati Uniti e, quando possibile, trascorre del tempo in Italia, soprattutto a Napoli. Vox è il suo romanzo d’esordio.

Giusy Giulianini

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