The hurt locker

Nonostante le critiche piovute da più parti – o forse grazie a quelle – Kathryn Bigelow si è aggiudicata la più importante delle statuette dorate di questo 2010.
Risultato a dir poco sorprendente, visto e considerato che si tratta della prima vittoria femminile della storia in campo registico.
Con i suoi sei Oscar collezionati – tra cui quello per il miglior film – The Hurt Locker ha battuto anche il fascino cool della Storia secondo Tarantino e, ancor più importante, il tanto chiacchierato Avatar. Un gran bel colpo insomma.

Ma esattamente, questo The Hurt Locker… che film è?
The Hurt Locker, telecamera a spalla frenetica, montaggio instabile, perso talvolta in sospesi ralenty della sabbia che lievita (in seguito a un’esplosione) o del bossolo che impatta il terreno e ripetutamente piroetta su sé stesso, è prima di tutto un film atipico.

Kathryn Bigelow, dal canto suo, non si è mai presentata al suo pubblico come una regista standard.
Competente e talentuosa direttrice di film d’azione, ha dimostrato lungo l’arco di una ben calibrata carriera di sapersi spingere molto più in là del convenzionale. L’ha fatto in parte con il bel Point Break e ha centrato un bersaglio straordinario con il bellissimo ed epocale Strange Days.
Alla prima prova nel genere bellico “terrestre” (il precedente K-19, bellico/storico, è ambientato in un sottomarino) dimostra ancora una volta di sapere il fatto suo e di poter raccontare qualcosa con un piglio decisamente più visionario della maggior parte dei suoi colleghi.

Reiterando lungo l’arco di un’intera pellicola scene già ampiamente viste nel panorama cinematografico mondiale (si pensi anche solo alla sequenza dell’artificiere nello splendido Bullet in the Head di John Woo) la Bigelow le carica di pulsioni adrenaliniche e ne studia gli effetti sui suoi protagonisti, soldati che agiscono – fucile imbracciato – sotto la canicola di città scarnificate, devastate, deserti urbani di spettrale silenzio, non-luoghi nei quali giocano una partita a dadi con la morte. Evitando in gran parte le più trite tipizzazioni del genere, The Hurt Locker sostiene uno sguardo forse non definitivamente critico, quando per certi versi partecipe.

Il ragionamento (o retaggio?) sembrerebbe dunque partire dalla considerazione che l’America è in conflitto costante dal 2001. Questa sorta di assiduus bellum è diventata una componente dalla quotidianità, il tempo delle domande sul perché e il percome della sporca guerra è perciò passato da un pezzo. Ne è dimostrazione l’assoluta mancanza di una strutturazione dell’ambiente. Non è importante dove stiano combattendo i soldati della Bigelow, a contrario risulta fondamentale il solo fatto che lo stiano facendo.
Il Sergente James – nonostante l’eccessiva caratterizzazione stile “cowboy senza paura” –, è in questo senso uno specchio di un preciso male di vivere contemporaneo. Pare infatti che la Bigelow voglia sottolineare che dietro alle vite di questi soldati c’è un’ansia frustrante, alleviata (o glissata?) grazie a uno scostamento della visione, puntata (come un dito indice perentorio) contro un bersaglio preciso, quanto mai reale e considerato come una minaccia. Questo perché “War is drug” ma anche “alla mia età mi è rimasto l’amore per una sola cosa”.

Alla fin fine The Hurt Locker cerca di togliersi di dosso tutto quel tronfio patriottismo e quelle tipizzazioni di cui sono notoriamente imbevuti i film bellici made in Usa. Ovviamente non ci riesce del tutto, ma risulterebbe stupefacente il contrario. Nonostante ciò si tratta indubbiamente di un opera nettamente superiore a un The Kingdom, pessimo sottoprodotto della paura americana post-11 settembre, con il quale condivide il movimento costante della macchina da presa ma che non ha niente da spartire per quanto riguarda il senso di claustrofobica inesistenza di una via d’uscita dall’orrore. Perché in fondo, citando e parafrasando una reminiscenza del passato registico della Bigelow, “il punto non è sei paranoico, ma se lo sei abbastanza”.

A ognuno la propria chiave di lettura.

massimo versolatto

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