Arturo Pérez-Reverte – I cani di strada non ballano



Arturo Pérez-Reverte
Arturo Pérez-Reverte
Rizzoli
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I cani antropomorfi, ma non troppo, di Arturo Pérez-Reverte
Non cessa di stupirci Arturo Pérez-Reverte che, da quando ha lasciato la sua prima vita di reporter di guerra per quella di scrittore a tempo pieno, ha toccato, e con indubbio successo, tutti i registri narrativi: dal romanzo storico all’avventura, dal romance al mistery, dal thriller al noir, senza trascurare il paranormale.
E ora, con I cani di strada non ballano (Rizzoli noir, ottobre 2019, pagg. 176), anche il metaforico, in una favola nera nella quale protagonisti sono gli amici a quattro zampe degli umani, cui somigliano tanto, emozioni dolori pensieri progetti, ma per fortuna non del tutto.
Ai margini di una città imprecisata della Spagna, vicino a un fiume, c’è l’Abbeveratoio di Margot, dove i cani del circondario si trovano a bere l’anice sversato da una vicina distilleria e a scambiare riflessioni sulla vita e sui padroni, chi ancora ce li ha. Nero, un imponente incrocio tra un mastino spagnolo e un fila brasileiro, ne ha molte da raccontare, ruvido e un po’ cinico sopravvissuto a troppi combattimenti tra cani, affrontati nelle arene dove i duelli all’ultimo sangue divertono uomini crudeli. Nero conosce il sentimento dell’amicizia, leale e profonda, e lo divide con: il ridgeback Teo, nonostante siano entrambi innamorati della stessa cagna, il bellissimo e un po’ vano levriero Boris e l’irresistibile segugio Agilulfo, che non perde occasione di lanciarsi in citazioni letterarie e filosofiche perché il suo umano possiede una vastissima biblioteca. Una vita serena insomma, che si interrompe bruscamente quando Teo e Boris spariscono senza lasciar traccia. Nero non può restarsene a guardare, anche se le tante battaglie combattute giustificherebbero la sua latitanza, e si lancia intrepido in una indagine che sarà rischiosa e crudele quante altre mai, perché lo porterà proprio nel luogo dal quale era riuscito a salvarsi, l’arena dei combattimenti canini, quello Scannatoio in cui “soltanto la violenza e la crudeltà ti davano modo di sopravvivere”.
Una favola nera, dicevo in apertura, dove “i cani non ballano, ma sopravvivono con lealtà”, possiedono anzi un profondo senso di fratellanza, che li innalza ben al di sopra di un’umanità sempre più avviata lungo la china del pressapochismo morale. Nero, per indole un lottatore che la crudeltà degli uomini ha reso uno spietato assassino, pur piegato nel corpo e nella mente da esperienze impossibili da dimenticare, non esita a tornare nell’arena per liberare i suoi amici, che a ben vedere sono rivale in amore l’uno e insopportabile vanesio l’altro.
Arturo Pérez-Reverte, il novelista peléon, lo scrittore fazioso che di volta in volta inveisce contro lo strapotere dei social l’ultrafemmminismo o il buonismo imperante, qui lancia i suoi strali contro un’umanità in crisi di valori, che non conosce lealtà, che abbandona gli animali appena mutano da divertenti pelouche a limitazioni della loro libertà, un’umanità che cerca brividi ed emozioni forti anche a costo di sangue versato.
Una metafora la sua, raccontata con epico accento ma anche con estrema crudezza, che a quella meschinità umana contrappone un universo canino di profondo onore, perché “in fondo un cane non è altro che una lealtà in cerca di una causa”, valido anche a dispetto dell’esempio dei padroni, non sempre all’altezza dei propri animali.
Vividi protagonisti, Nero e i suoi simili, per i quali è impossibile non parteggiare, ritratti tutti in colori accesi, alcuni indimenticabili. Come Cuco il bodeguero, vittima sacrificale per l’allenamento dei cani lottatori, “gli occhi supplichevoli e i patetici canini”, tremante all’idea di morire ma capace di un ultimo sussulto di orgoglio nel pensare di rendere il padrone fiero di lui. O l’immigrante Tequila, “una xoloitzcuintle messicana, immigrante, che si era sistemata bene, a capo di una banda di trafficanti di ossa e avanzi di macelleria”. O ancora il meticcio Moro, “un disgraziato senza futuro, venuto dal Marocco, come tanti abbandonati o vagabondi di cui non ci preoccupavamo perché avevamo altro cui pensare”. Certo su tutti spiccano Nero e l’amico Teo, un gladiatore il primo alla maniera del trace Spartaco, un partigiano il secondo che rinuncia agli agi pur di combattere, da libero, le ingiustizie.
Sorprende, sì, Arturo Pérez-Reverte in questo racconto, anche se vi si possono riconoscere alcune delle sue peculiarità. Per esempio la guerra, suo tema ricorrente ed esperienza ventennale da inviato di guerra in Africa, Medio Oriente, America Latina, Bosnia, è qui evocata attraverso la dura lotta di Nero per la sopravvivenza: l’autore d’altronde ha sempre dichiarato che il suo interesse specifico è raccontare gli individui “in momenti duri, lacerati, estremi”. E anche la qualità metaletteraria delle sue opere, quel suo riferirsi in modo esplicito o implicito ad altri autori, rivelandosi in ciò un avido e raffinato lettore. Ne I cani di strada non ballano è Agilulfo a farsi portavoce di citazioni filosofiche e letterarie, una fra tutte, seppure addomesticata a uso canino, dalle Odi di Orazio: “dulce et decorum est pro cane mori”. Per non parlare dei crudeli scontri canini nello Scannatoio, che tanto riecheggiano le atmosfere di Sangue e Arena di Blasco Ibáñez e dove anche i cani se ne vanno incontro alla morte “come un umano torero di fronte a un Miura”.
Aggiungerei che Pérez-Reverte arriva qui a citare anche se stesso: come non riconoscere in Nero lo spadaccino della saga del Capitano Alatriste e, nella trafficante messicana Tequila, Teresa Mendoza protagonista del suo La regina del Sud?

Giusy Giulianini

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