Bad city blues



tim willocks
Bad city blues
cairo
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New Orleans, oggi, anzi ieri, visto che il libro è stato scritto nel 1991. Cicero Grimes, un medico che si dedica al recupero dei tossicodipendenti, è ossessionato dall’odio per il fratello Luther, che ha giurato di uccidere per ragioni che emergeranno solo al termine del libro. Con Callie, ex prostituta e ora moglie del solito reverendo fondamentalista sessuofobo e impotente, organizza un furto miliardario, senza sapere che Callie lo sta tradendo proprio con Luther. I soldi però ingolosiscono Jefferson, gigantesco poliziotto profondamente sadico, che cattura Cicero e lo sottopone a terribili torture, fisiche e soprattutto psicologiche, dettagliatamente descritte per 114 pagine (su 270 totali). Finalmente, tutti i personaggi si massacreranno a vicenda fra la furia degli elementi in una sanguinolenta resa dei conti.
Questo libro, pubblicato in Italia solo ora, sulla scia dei successivi “Il fine ultimo della creazione” e “Religion”, sembra più un trattato pratico di fisiologia che un romanzo: la trama convenzionale è appena un pretesto per un’interminabile teoria di raccapriccianti illustrazioni di tutto quanto può essere inflitto ad un corpo umano mediante il sesso e la pura forza bruta.
L’inclinazione di Willocks per il gran guignol, che nelle spietate battaglie di “Religion” si nasconderà dietro il pretesto della veridicità storica, qui non è altro che pornografia della violenza, rivestita da una patina di intellettualismo. Willocks oltretutto è medico ed ama ostentare le proprie competenze indulgendo alla descrizione minuziosa dei più diversi fluidi corporei e dei vari modi per sottrarli alla loro sede naturale. E, per evitare che si pensi ad un moralismo da anime belle, cito un passaggio a caso: “In fondo trovò una soglia in fiamme, con un secondo uomo riverso supino a braccia larghe. Tra le gambe aveva un ammasso di volvoli intestinali a brandelli su cui luccicavano globuli di grasso rovente. Qua e là un tratto di colon si muoveva e si gonfiava a seconda dell’espansione da calore dei gas intestinali” (pag. 213). Sotto quella che vorrebbe passare per cifra narrativa, o scelta espressiva, insomma, vi è semplicemente il furbo compiacimento splatter condito da un po’ di psicologia da strapazzo, come confermato dall’estenuante episodio della tortura, talmente compiaciuto, fine a sé stesso ed ingiustificato nell’economia generale del romanzo, da formare quasi un racconto a parte.
Sfrondata delle truculenze, del resto, la storia è incredibilmente statica, priva di ironia, greve di scontato moralismo e, nonostante la semplicità dell’intreccio, sempre largamente prevedibile.

donatella capizzi

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