Bambini di ferro



Viola Di Grado
Bambini di ferro
La nave di Teseo
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Perché recensire “Bambini di ferro” su Milanonera? Perché il terzo romanzo di Viola Di Grado, pur non essendo né un giallo né un thriller, rientra a buon diritto nella (non) categoria dei libri che possiedono un’anima noir. Il valore aggiunto, poi, è il bel vestito creatogli dalla neonata “Nave di Teseo”. Che l’autrice siciliana sia un personaggio fuori dalle righe, una sorta di folletto dei giorni nostri, è fatto noto. Basta aver letto il suo esordio “Settanta acrilico, trenta lana”, per comprenderlo. Estranea alle mode, trasgressiva a modo suo, Viola Di Grado rappresenta oggi, insieme a Simona Vinci – sebbene le due abbiano età ed esperienze diverse – la voce più interessante della narrativa al femminile. Di certo fa uso di un linguaggio contemporaneo, spesso al limite, spirituale. La storia è ambientata in Giappone. Reduci di esperimenti di accudimento materno artificiale, i Bambini di ferro vengono allevati da androidi che dispensano loro un amore che dovrebbe essere perfetto, ma che invece si rivela finto. Sono considerati esseri umani difettosi, come ha spiegato l’autrice in tivù, e per questo motivo vengono rinchiusi in un istituto in compagnia del loro guasto. Protagonista è Sumiko: non parla, non mangia, rimane nel suo mondo. In realtà lei e i Bambini di ferro sono le uniche persone sane all’interno di una società alienata; gli unici che, nonostante tutto, conservano un accesso integro al mondo dei sentimenti. Di Grado ha espresso così la sua filosofia: “Siamo tutti cavie di un amore materno che non può essere perfetto, che tramanda le sue imperfezioni”. Se fosse musica questo romanzo potrebbe essere “Karmacoma” dei Massive Attack, una sorta di mantra dub che richiama le atmosfere del libro, sempre in bilico tra gelo e tepore. Lettura complessa.

Alessandro Garavaldi

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