Delitti al sole – i racconti gialli per l’estate firmati dai maestri del genere.
L’antologia Delitti al sole, pubblicata dai tipi di Elliot, propone i racconti di sei maestri del giallo, autori classici di lingua inglese che interpretarono ognuno a suo modo il genere che li rese celebri. Da Marie Belloc Lowndes ad Arnold Bennett, da Susan Glaspell ad Arthur Conan Doyle (con l’unico racconto non inedito dell’antologia, tratto dalla serie Il taccuino di Sherlock Holmes), da Gilbert Keith Chesterton a Richard Austin Freeman, celebre inventore della detective story “rovesciata”, in cui crimine e criminale sono subito svelati al lettore, che lavora insieme all’investigatore risalendo a ritroso fino alla verità. Sei racconti del mistero che sfidano l’acume di chi legge nel giungere alla scoperta della verità e assicurare alla giustizia i colpevoli. Con i racconti: “Il caso Oscar Brodski” di Richard Austin Freeman, “Un braccialetto a Bruges” di Arnold Bennet, “L’avventura dell’uomo carponi” di Arthur Conan Doyle, “Il giardino segreto” di Gilbert Keith Chesterton, “Una giuria di sue pari” di Susan Glaspell, “Popeau interviene” di Marie Belloc Lowndes.
MilanoNera pubblica in esclusiva un estratto da Estratto da “Il caso Oscar Brodski” di Richard Austin Freeman, traduzione di Fiamma Toscano
AA.VV.
Delitti al Sole
Il caso Oscar Brodski
di Richard Austin Freeman
- Il meccanismo del crimine
Sulla coscienza sono state dette una quantità sorprendente di cose senza senso. Da una parte il rimorso (o “ri-mordere”, come certi studiosi di formazione ultrateutonica preferiscono chiamarlo); dall’altra “una coscienza leggera”: entrambi sono stati accettati come fattori determinanti della felicità o del suo contrario. Di sicuro c’è una parte di verità nella visione basata sulla “coscienza leggera”, benché non riesca a render conto di tutto. Una coscienza particolarmente forte può essere piuttosto leggera, nelle condizioni più sfavorevoli, mentre nelle stesse condizioni la coscienza più debole può essere seriamente affetta dal “ri-mordere”. E poi, sembra un fatto che alcune persone fortunate non abbiano nessuna coscienza: un dono negativo che le innalza al di sopra delle vicissitudini mentali del gregge umano ordinario. Ora, Silas Hickler era un caso da manuale. Nessuno, vedendo il suo volto rotondo e gioviale, raggiante di benevolenza, segnato da un sorriso perpetuo, avrebbe immaginato che fosse un criminale; men che mai la sua governante, degna anglicana di rito cattolico, che era testimone della sua amabilità costante, lo sentiva sempre cantare a cuor leggero in giro per casa e notava la sua gratitudine entusiasta al momento dei pasti. Eppure è un fatto che Silas ricavasse il suo modesto, seppure confortevole, reddito dalla gentile arte del furto con scasso: un settore precario e per di più rischioso, ma non tanto pericoloso se praticato con giudizio e moderazione. E Silas era soprattutto un uomo di buon senso: lavorava sempre da solo; si teneva tutto dentro; nessun complice avrebbe testimoniato in modo imprevisto per l’accusa; nessuna “puttana” si sarebbe vendicata andando a Scotland Yard in uno scatto di collera. Non era neanche avido e spendaccione come la maggior parte dei criminali. I suoi “colpi” erano pochi e rari, pianificati con cura, eseguiti in segretezza e i profitti venivano giudiziosamente investiti in “proprietà settimanali”, cioè alloggi dati in affitto alla settimana.
In gioventù Silas era stato legato all’industria dei diamanti e faceva ancora qualche affare in quel campo, in modo piuttosto irregolare. In quel commercio era sospettato di fare transazioni con gli IDB e un paio di rivenditori indiscreti erano arrivati persino a sussurrare l’infausta parola “ricettatore”. Ma Silas faceva un sorriso benevolo e continuava per la sua strada. Sapeva quello che sapeva e i suoi clienti di Amsterdam non facevano domande.
Silas Hickler era così. Mentre passeggiava nel suo giardino, al tramonto di una sera d’ottobre, assomigliava esattamente al modesto benestante della classe media. Indossava l’abito da viaggio che usava per i suoi spostamenti in continente; la sua borsa era piena, pronta sul sofà del soggiorno. Nella tasca interna del suo panciotto c’era una bustina di diamanti (comprati onestamente, senza domande impertinenti, a Southampton) e un’altra, di maggior valore, era nascosta in una cavità del tacco del suo scarpone destro. Entro un’ora e mezza, per lui sarebbe giunto il momento di prendere il treno per Amsterdam al crocevia ferroviario; nel frattempo non c’era nient’altro da fare che passeggiare nel giardino che appassiva e riflettere su come investire i guadagni della futura vendita. La sua governante
era andata a Welham per la spesa settimanale e probabilmente non sarebbe ritornata prima delle undici di sera. Era solo nella sua proprietà e un po’ annoiato. Era sul punto di tornare in casa, quando il suo orecchio colse un suono di passi sulla strada sterrata che passava accanto al lato esterno del giardino. Fece una pausa e ascoltò. Non c’erano altre abitazioni nelle vicinanze e la strada non portava da nessuna parte, perdendosi nel terreno incolto dietro la casa. Poteva essere un visitatore? Sembrava improbabile perché Silas Hickler riceveva poche visite. Intanto, i passi continuavano ad avvicinarsi, risuonando sempre più pesanti sul sentiero duro e pietroso.
Silas si diresse con calma al cancello e inclinandosi sopra di esso guardò fuori con una certa curiosità. Poco dopo, un bagliore luminoso gli mostrò il volto di un uomo che sembrava si stesse accendendo la pipa; poi una figura indistinta si staccò dall’oscurità avvolgente, avanzò verso di lui e si fermò di fronte
al giardino. Lo straniero si tolse una sigaretta di bocca e, sbuffando una nuvola di fumo, chiese: «Mi può dire se questa strada porta alla stazione di Badsham?».
«No» replicò Hickler «ma c’è un sentiero più giù che va alla stazione».
«Sentiero!» grugnì lo straniero. «Ne ho abbastanza di sentieri. Sono sceso a Catley dalla città, con l’intenzione di camminare fino alla stazione. Mi sono avviato sulla strada e poi qualche svitato mi ha indicato una scorciatoia, col risultato che sono stato a gironzolare al buio nell’ultima mezz’ora. La mia vista non è molto buona, sa» aggiunse. «Che treno vuole prendere?» chiese Hickler.
«Quello delle sette e cinquantotto» fu la replica.
«Anch’io devo prendere quel treno» disse Silas «ma partirò fra almeno un’ora.
La stazione è a poco più di un chilometro da qui. Se le va di entrare e riposarsi, potremmo andarci insieme e così sarà sicuro di non perdersi per strada».
«È molto gentile da parte sua» disse l’estraneo guardando da dietro le lenti la casa buia «ma… penso…».
«Potrà aspettare qui come alla stazione» disse Silas con le sue maniere cordiali, tenendo il cancello aperto; l’estraneo, dopo una breve esitazione, entrò e, gettando la sigaretta, lo seguì alla porta del cottage. Il soggiorno era al buio, eccetto per una fioca luce proveniente dal fuoco morente. Entrando prima del suo ospite, Silas accese con un fiammifero la lampada che pendeva dal soffitto.
Quando la fiamma divampò, inondando di luce il piccolo ambiente, i due uomini si guardarono l’un l’altro con reciproca curiosità.
“Brodski, per Giove!” fu il commento silenzioso di Hickler quando riconobbe il suo visitatore. “È chiaro che non mi riconosce… ovvio, dopo tutti questi anni e con la sua vista debole”. «Prenda una sedia, signore» aggiunse a voce alta. «Si unirebbe a me per uno spuntino, mentre aspettiamo che il tempo passi?». Brodski accettò in un mormorio indistinto e mentre il suo ospite si voltava per aprire la credenza posò il cappello (un feltro rigido grigio) su una sedia nell’angolo, mise la borsa sul bordo del tavolo appoggiandovi l’ombrello e si sedette in una poltroncina.
«Prende un biscotto?» disse Hickler, mentre metteva sul tavolo una bottiglia di whisky, un sifone da selz e un paio dei suoi migliori bicchieri da liquore decorati con un motivo a stelle.
«Sì, grazie» disse Brodski. «Il viaggio in treno e tutto questo girovagare confuso, sa…».
«Sì» disse Silas. «Non è il caso di partire a stomaco vuoto. Spero che le piacciano i dolci all’avena. Sono gli unici biscotti che ho».
Brodski si affrettò a rassicurarlo che i dolci all’avena erano i suoi preferiti e, per confermarlo, dopo essersi preparato un bel bicchiere di whisky e soda, si gettò sui biscotti con golosità evidente.
Brodski era un mangiatore determinato e al momento sembrava alquanto affamato. Il suo masticare metodico non era favorevole alla conversazione, il cui peso ricadde soprattutto su Silas e, per una volta, quel cordiale trasgressore trovò il compito imbarazzante. Sarebbe stato naturale discutere della destinazione del suo ospite e magari del motivo del suo viaggio; ma ciò fu precisamente quello che Hickler evitò di fare, perché sapeva la risposta e l’istinto gli disse di tenere la sua conoscenza per sé.
Brodski era un commerciante di diamanti di considerevole reputazione e con un grande giro d’affari. Comprava soprattutto pietre grezze di cui era un ottimo intenditore. La sua preferenza andava alle pietre di taglia e valore inusuali ed era noto che avesse l’abitudine, quando aveva accumulato sufficiente mercanzia, di portarle lui stesso ad Amsterdam e sovrintendere al loro taglio. Hickler non aveva dubbi che Brodski stava partendo per uno dei suoi ricorrenti viaggi ed era consapevole che in qualche angolo recondito del suo abito piuttosto sciatto era dissimulata una bustina di carta che poteva valere diverse migliaia di sterline.
Brodski sedeva al tavolo masticando con monotonia e parlando poco. Hickler era seduto di fronte a lui, parlava nervosamente e, a tratti, pure troppo, mentre guardava il suo ospite con crescente fascinazione. Le pietre preziose, in particolare i diamanti, erano la specialità di Hickler. La “roba dura” – placcata argento – la evitava completamente; l’oro lo toccava di rado, salvo sotto forma di monete; ma le pietre preziose, di cui poteva portare un’intera partita nel tacco del suo scarpone e disporne con assoluta sicurezza costituivano il pezzo forte della sua impresa. E lì c’era un uomo seduto di fronte a lui con una bustina nelle sue tasche che conteneva l’equivalente di una dozzina dei suoi “colpi” più lucrosi; pietre che valevano forse… Si fermò di netto e cominciò a parlare in fretta, anche se in modo un po’ incoerente perché, mentre parlava, altre parole, formate nel suo subconscio, sembravano insinuarsi tra una frase e l’altra e costituire una trama di pensiero parallela.
«Sta diventando fresco la sera, vero?» disse Hickler. «Sì, in effetti» convenne Brodski e ricominciò il suo lento masticare, respirando dal naso in modo udibile. “Almeno cinquemila” la trama subconscia di pensiero riprendeva. “Probabilmente sei o sette, forse dieci”. Silas si agitava sulla sedia e si sforzava di concentrarsi su qualche argomento interessante. Stava diventando sgradevolmente consapevole
di un nuovo stato mentale per nulla familiare.
«Si interessa al giardinaggio?» chiese. Dopo i diamanti e le “proprietà settimanali”, l’altra sua ossessione erano le fucsie.
Brodski fece una risatina acida. «Hatton Garden è quel che vi si avvicina di più…». Si interruppe all’improvviso e poi aggiunse: «Sono londinese, sa».
La brusca interruzione non sfuggì a Silas, che non ebbe difficoltà a interpretarla. Un uomo che porta una ricchezza dissimulata sulla sua persona ha un assoluto bisogno di stare attento a quello che dice.
«Sì» rispose distrattamente «non è un passatempo da londinesi». E poi, in maniera quasi cosciente, iniziò un rapido calcolo. “Mettiamo che valga cinquemila sterline. Cosa rappresenta in termini di proprietà settimanali?”. Il suo ultimo gruppo di case era costato duecentocinquanta sterline l’una e le affittava a dieci scellini e sei penny alla settimana. A quel tasso, cinquemila sterline rappresentavano venti case a dieci scellini e sei penny alla settimana – diciamo dieci sterline a settimana, cinquecentoventi sterline all’anno, per il resto della vita. Era una bella rendita; aggiunta a quella che aveva già, sarebbe stata una ricchezza. Con quel reddito avrebbe potuto gettare al fiume gli attrezzi del mestiere e vivere il resto della sua vita nell’agiatezza e nella sicurezza.
Guardò furtivamente il suo ospite oltre il tavolo e poi subito distolse lo sguardo perché si sentiva rimescolato da un impulso sulla cui natura non si poteva sbagliare. Bisognava che vi mettesse un termine. Aveva sempre visto i crimini contro la persona come un’assoluta follia. C’era, è vero, quell’affare del poliziotto di Weybridge, ma era stato imprevisto e inevitabile ed era stata colpa dell’agente dopotutto. E c’era pure la vecchia governante a Epsom ma, certo, se la vecchia idiota gridava in quel modo pazzesco… be’, era stato un incidente, senz’altro riprovevole, e nessuno si sarebbe dispiaciuto del contrattempo più di lui. Ma un omicidio volontario! Una rapina di persona! Era l’atto di un uomo completamente folle. Senza dubbio, se fosse stato quel tipo di persona, quella era l’occasione di una vita intera. Il bottino immenso, la casa disabitata, i dintorni solitari, la distanza dalla strada principale e dalle altre abitazioni; il momento, il buio… Ma certo, c’era il corpo a cui pensare, era sempre quella la difficoltà: cosa fare con il corpo… In quel momento udì il fischio del treno espresso, il quale svoltava la curva della ferrovia che passava oltre il terreno incolto dietro la sua casa. Il suono diede inizio a un nuovo filo di pensieri e, mentre lo seguiva, i suoi occhi si fissarono sull’incosciente e taciturno Brodski che sedeva sorseggiando pensieroso il suo whisky. Infine, distogliendo lo sguardo con uno sforzo, si alzò all’improvviso dalla sedia e si girò per guardare l’orologio sulla mensola del camino, allungando le mani davanti al fuoco morente. Un tumulto di strane sensazioni lo avvisò di lasciare la casa. Rabbrividì leggermente, anche se era più caldo che freddo, e girò la testa per guardare la porta.
«Sembra esserci un leggero spiffero» disse sentendo un altro brivido. «Mi chiedo se ho chiuso bene la porta». Attraversò la stanza con passo deciso, spalancò la porta e guardò fuori nel giardino buio. Lo aveva assalito un desiderio, urgente e improvviso, di ritrovarsi all’aria aperta, di mettersi in cammino
e farla finita con quella follia che stava bussando alle porte della sua mente.
«Mi chiedo se non valga la pena di partire ora» disse, con un’occhiata bramosa al cielo nuvoloso e senza stelle. Brodski si riscosse e si guardò intorno. «Il suo orologio va bene?» chiese.
Silas, con riluttanza, rispose di sì.
«Quanto ci vorrà per andare a piedi alla stazione?» chiese Brodski.
«Oh, circa venticinque minuti, mezz’ora» replicò Silas, esagerando la distanza inconsciamente.
«Quindi» disse Brodski «abbiamo ancora più di un’ora, e attendere qui è molto più confortevole che alla stazione. Non vedo l’utilità di partire prima del necessario».
«No, certo che no» fu d’accordo Silas. Un’ondata di strane emozioni, per metà rammarico e per metà trionfo, sorse nella sua mente. Rimase in piedi sulla soglia per qualche momento, guardando sognante verso la notte. Poi con dolcezza, richiuse la porta e in modo simile, senza sforzo, la chiave girò nella serratura silenziosamente.
Ritornò alla sua sedia e cercò di avviare una conversazione col taciturno Brodski, ma le parole gli venivano con difficoltà e a tratti. Sentiva il suo volto diventare più caldo, la sua mente affollata e tesa, e un leggero cantilenare acuto nelle sue orecchie. Era consapevole che stava guardando il suo ospite con nuovo e spaventoso interesse. Con un assoluto sforzo di volontà rivolse gli occhi altrove, ma un attimo dopo, involontariamente, ritornavano a fissare l’uomo inconsapevole, con ancor più orribile intensità. E ancora nella sua mente camminavano, come una terrificante processione, i pensieri su cosa
l’altro uomo – quello violento e sanguinario – avrebbe fatto nelle stesse circostanze. Dettaglio dopo dettaglio, con sintesi mostruosa, immaginò le fasi del crimine e le organizzò nella sequenza necessaria, finché non formarono una successione di eventi, razionale, connessa e coerente.
Si alzò con difficoltà dalla sedia, mantenendo sempre lo sguardo fisso sul suo ospite. Non poteva più restare seduto di fronte a quell’uomo col suo carico nascosto di gemme preziose. L’impulso che riconobbe con paura e meraviglia stava diventando sempre più ingovernabile di attimo in attimo. Se
fosse rimasto lì lo avrebbe sopraffatto in poco tempo e poi… Si ritrasse con orrore dallo spaventoso pensiero, ma le sue dita prudevano dal desiderio di maneggiare i diamanti perché, in fondo, Silas era un criminale per natura e abitudine. Era un animale predatore: non aveva mai guadagnato la sua vita; il suo reddito era stato preso col furto o, se necessario, con la forza. I suoi istinti erano predatori e la vicinanza di oggetti di valore non sorvegliati lo invogliava, come conseguenza logica, a rubarli o a sottrarli con la forza. Il suo desiderio di non lasciare andare quei diamanti oltre la sua portata stava diventando rapidamente travolgente. Ma avrebbe fatto un altro sforzo per sfuggire al suo istinto. Si sarebbe tenuto lontano da Brodski finché non fosse giunto il momento di avviarsi. «Se mi vuole scusare» disse «mi vado a mettere un paio di scarponi più pesanti. È da molto che non piove e il tempo potrebbe cambiare, ed è molto fastidioso avere i piedi umidi quando si è in viaggio».
«Sì, pericoloso anche» fu d’accordo Brodski. Silas andò in cucina, dove, con la luce della piccola lampada che era accesa lì, aveva visto i suoi scarponi di campagna robusti, puliti e pronti. Si sedette per fare il cambio. Ovviamente, non intendeva indossare davvero gli scarponi di campagna, perché i diamanti erano nascosti in quelli che indossava già. Ma avrebbe fatto il cambio per pensare ad altro; la cosa sarebbe servita a far passare il tempo. Fece un profondo respiro: era un sollievo, in ogni caso, essere uscito da quella stanza. Forse se si teneva lontano, la tentazione sarebbe passata.
Brodski sarebbe andato per la sua strada: si augurava che se ne andasse da solo – il pericolo sarebbe passato, almeno – e l’occasione sarebbe andata via… i diamanti… Guardò in alto mentre slacciava lentamente lo scarpone. Da dove stava, poteva vedere Brodski che sedeva al tavolo con le spalle girate alla porta della cucina. Aveva finito di mangiare e ora si stava rollando tranquillo una sigaretta. Silas aveva il respiro pesante e, sfilato lo scarpone, rimase per un po’ seduto immobile, fissando la schiena dell’altro uomo. Poi slacciò l’altro scarpone, sempre guardando trasognato il suo inconsapevole ospite, lo sfilò e lo posò con molta lentezza sul pavimento.
Brodski con calma finì di rollare la sua sigaretta, leccò il bordo della cartina, mise via la busta del tabacco e, dopo aver scrollato via dalle ginocchia le briciole, cominciò a cercare un fiammifero nelle sue tasche. All’improvviso, cedendo a un impulso incontrollabile, Silas si alzò e cominciò a strisciare furtivamente verso il passaggio che portava al soggiorno. Con i soli calzini, i suoi piedi non facevano il minimo rumore. Silenzioso come un gatto, avanzava cauto, respirando lievemente con le labbra socchiuse, finché non si fermò alla soglia della stanza. Il sangue affluì, rabbuiando il suo volto; i suoi occhi fissi, spalancati, brillavano alla luce della lampada e il battito accelerato mormorava nelle sue orecchie.
Brodski prese un fiammifero – Silas notò che era di legno, di tipo vesta1 –, accese la sigaretta, soffiò sul fiammifero e lo gettò nel paracenere del camino. Poi, si rimise il portafiammiferi in tasca e iniziò a fumare. Lentamente e in silenzio, Silas strisciò nella stanza, passo dopo passo, con furtività felina, fino a rimanere in piedi dietro la sedia di Brodski, talmente vicino che doveva girare la testa per evitare che il suo alito sfiorasse i capelli dell’uomo. Rimase immobile così per mezzo minuto, come una simbolica statua dell’Assassino, guardando ingiù con occhi orribili, luccicanti sull’inconsapevole mercante di diamanti, mentre il suo respiro accelerato passava senza un suono attraverso la sua bocca socchiusa e le sue dita si contorcevano come i tentacoli di un’idra gigante. E poi, più silenzioso che mai, indietreggiò fino alla porta, si voltò rapidamente e ritornò nella cucina. Fece un profondo respiro: c’era andato vicino. La vita di Brodski era stata appesa a un filo, perché era stato così facile. In effetti, se mentre si teneva dietro la sedia dell’uomo avesse avuto un’arma, un martello ad esempio, o anche una pietra… Diede un’occhiata in giro in cucina e i suoi occhi si soffermarono su una sbarra che era stata lasciata dall’operaio che aveva montato la nuova serra. Era un residuo tagliato da un profilato di ferro battuto di sezione quadrata, era lungo una trentina di centimetri e spesso un paio. Se avesse avuto quello in mano un minuto prima…
Prese la sbarra, la soppesò nella mano e la fece roteare intorno alla sua testa: che arma formidabile; e, in più, silenziosa. Era perfetta per il piano che aveva progettato. Bah! Avrebbe fatto meglio a posarla.
Ma non lo fece. Avanzò fino alla porta e guardò Brodski che sedeva, come prima, fumando meditativo, dando le spalle alla cucina.
Un improvviso cambiamento in Silas gli congestionò il volto, che si deformò in una smorfia cupa, e fece ingrossare le vene del suo collo. Tirò fuori l’orologio, lo guardò con aria severa e lo rimise al suo posto. Poi, attraversò a grandi falcate lo spazio che lo separava dal soggiorno. A un passo dalla sedia si fermò e prese intenzionalmente la mira. Sollevò la sbarra, ma non in perfetto silenzio, perché Brodski si girò rapidamente al sibilo del ferro che fendeva l’aria. Il movimento disturbò la mira dell’assassino e la sbarra fu deviata dalla testa della vittima, provocando solo una ferita superficiale. Brodski saltò in piedi con un grido tremolante, belante e afferrò le braccia del suo aggressore con tenacia da terrore mortale. Allora iniziò una terribile battaglia in cui i due uomini, stretti in un abbraccio mortale, ondeggiavano e barcollavano avanti e indietro. La sedia fu ribaltata, un bicchiere vuoto spazzato via dal tavolo e gli occhiali di Brodski finirono schiacciati sotto passi pesanti. E per tre volte quel grido spaventoso, patetico, belante risuonò nella notte, terrorizzando Silas, malgrado la sua frenesia omicida, che un passante casuale potesse udirlo. Raccogliendo al massimo le sue energie per uno sforzo finale, spinse la vittima supina contro il tavolo e, afferrando un angolo della tovaglia, glielo spinse in faccia e glielo cacciò in gola appena aprì la bocca per gridare ancora. Quindi rimasero per due buoni minuti, quasi senza muoversi, come statue di una tragica allegoria. Poi, quando gli ultimi deboli sussulti si smorzarono, Silas rilasciò la stretta e lasciò il corpo inerte scivolare mollemente sul pavimento. Era finita. Per il bene o per il male, la cosa era fatta. Silas rimase in piedi, ansimando e, mentre si asciugava il sudore dalla fronte, guardò l’orologio. Le lancette indicavano le sette meno un minuto. L’intera operazione era durata poco più di tre minuti. Aveva quasi un’ora per completare il tutto. Il treno merci che faceva parte del suo piano passava alle sette e venti e la ferrovia si trovava a poco meno di trecento metri. Eppure, non doveva perder tempo. Ora era piuttosto calmo e disturbato solo dal pensiero che le grida di Brodski potessero essere state udite. Se nessuno le aveva sentite, stava andando tutto a gonfie vele.
Si chinò e, dopo aver delicatamente disincagliato la tovaglia dai denti del morto, iniziò un’accurata perquisizione delle sue tasche. Non gli ci volle molto per trovare quello che cercava e, quando afferrò il pacchettino di carta, sentendo le pietruzze scontrarsi l’una con l’altra al suo interno, il suo debole pentimento per quello che era successo fu annichilito dalla voglia di congratularsi con se stesso.
Poi si mise al lavoro con rapida efficienza e un occhio attento all’orologio. Sulla tavola erano cadute alcune grandi gocce di sangue e c’era una piccola macchia di sangue sulla moquette vicino alla testa del morto. Silas andò a prendere un po’ di acqua dalla cucina, uno spazzolino per unghie e un panno asciutto. Dopo aver smacchiato la tovaglia – senza dimenticare, sotto, il piano del tavolo economico – e tolto lo schizzo dalla moquette, strofinò col panno asciutto le parti umide e fece scivolare un foglio di carta sotto la testa del cadavere, per evitare ulteriori contaminazioni. Poi rimise la tovaglia a posto, risollevò la sedia, posò gli occhiali rotti sul tavolo e raccolse la sigaretta, che era stata calpestata nella colluttazione, e la gettò nel camino. Poi c’erano i vetri rotti, che raccolse in una paletta.
Una parte erano i pezzi del bicchiere rotto e il resto erano i frammenti delle lenti. Svuotò la paletta su un foglio di carta e li guardò attentamente, scegliendo i pezzi più grandi delle lenti e mettendoli da parte su una striscia di carta separata, insieme a una manciata di frammenti minuti. Il resto lo rimise nella paletta e, indossati in fretta gli scarponi, li gettò nel mucchio di spazzatura sul retro della casa.
Era ormai ora di partire. Tagliò in fretta un bel pezzo di spago che teneva in una scatola – perché Silas era un uomo ordinato e detestava accontentarsi di rimasugli di spago come fa molta gente –, legò insieme borsa e ombrello del morto e se li gettò sulla spalla. Poi piegò il pezzo di carta coi frammenti di
vetro e se lo mise in tasca insieme agli occhiali rotti, sollevò il corpo e se lo gettò sulla spalla. Brodski era un ometto modesto che pesava sui cinquantacinque chili; non era un carico eccezionale per un uomo grande e atletico come Silas.
La notte era molto buia e quando Silas guardò oltre il cancello sul retro, verso il terreno incolto che si estendeva dalla sua casa alla ferrovia, non poté vedere neanche venti metri più in là. Tese le orecchie per precauzione e, non avendo sentito nulla, uscì, chiuse rapidamente il cancello dietro di sé e si avviò
di buon passo, ma facendo attenzione al terreno accidentato.
Il suo avanzare non era silenzioso come si era augurato perché, sebbene lo scarso tappeto erboso che copriva il terreno breccioso fosse abbastanza spesso da attutire i suoi passi, l’ombrello e la borsa ondeggianti facevano un rumore irritante; in effetti i suoi movimenti erano intralciati più da questi ultimi che dal carico più pesante.
La distanza dalla ferrovia era di quasi trecento metri. Normalmente ci avrebbe messo tre o quattro minuti, ma stavolta, avanzando con precauzione col suo carico e fermandosi di tanto in tanto ad ascoltare, gli ci vollero sei minuti per raggiungere la staccionata che separava il terreno incolto dalla
ferrovia. Arrivato lì si fermò per un momento e ancora una volta ascoltò con attenzione, scrutando l’oscurità in ogni direzione. In quel posto desolato non si sarebbe vista né udita nessuna creatura vivente, ma in lontananza il fischio di una locomotiva lo avvertiva di sbrigarsi.
Sollevato con facilità il cadavere oltre la staccionata, Silas lo portò qualche metro più lontano, in un punto in cui il percorso curvava bruscamente. Qui lo depose a faccia in giù con il collo sulla rotaia interna. Con il coltellino tascabile, tagliò il nodo dello spago che teneva insieme l’ombrello e la borsa e, dopo averli gettati accanto al corpo sul binario, con cura mise lo spago in tasca, tranne il pezzetto che era caduto al suolo nel momento del taglio.
Il rapido sbuffare e lo sferragliare roboante di un treno merci in avvicinamento cominciavano ora ad essere chiaramente udibili. In fretta Silas tirò fuori dalla tasca gli occhiali ammaccati e il pacchetto coi vetri rotti. Gettò i primi vicino alla testa del morto e poi, svuotato il pacchetto nella sua mano, sparpagliò i frammenti di vetro intorno agli occhiali. Non era affatto troppo presto. Il rapido, laborioso sbuffare della locomotiva risuonava ormai vicinissimo. L’impulso di Silas fu di rimanere a guardare, per essere testimone della catastrofe finale che doveva convertire l’omicidio in incidente o suicidio. Ma non era una cosa sicura; sarebbe stato meglio che non si trovasse nelle vicinanze, nel caso in cui non fosse stato capace di andarsene senza essere visto. In fretta si arrampicò di nuovo sulla staccionata e attraversò di gran carriera il campo grezzo, mentre il treno arrivava alla curva sbuffando e sferragliando. Aveva quasi raggiunto il cancello posteriore del suo giardino, quando un suono dalla ferrovia lo fece arrestare bruscamente; era un fischio prolungato, accompagnato dal fragore dei freni e dal pesante sferragliare di vagoni che cozzavano fra loro. Lo sbuffare della locomotiva si era arrestato e fu rimpiazzato dal sibilo penetrante del vapore che fuoriusciva dal comignolo.
Il treno si era fermato!
Per un breve istante Silas rimase col respiro sospeso a bocca aperta, come se fosse pietrificato; poi riprese ad avanzare rapidamente fino al cancello e, entrando, in silenzio fece scivolare il piolo della chiusura. Era senza dubbio allarmato. Che poteva essere successo sulla ferrovia? Era certo che il corpo
era stato visto; ma cosa stava succedendo ora? Sarebbero venuti a casa sua? Entrò nella cucina e, dopo aver fatto una pausa per ascoltare – perché qualcuno poteva arrivare e bussare in qualsiasi momento –, attraversò il soggiorno e si guardò intorno. Tutto sembrava in ordine. Però c’era la sbarra, che giaceva
nel punto in cui gli era caduta durante la lotta. La prese in mano e la tenne sotto la lampada. Non era sporca di sangue; solo uno o due capelli attaccati. Quasi distrattamente, la strofinò con la tovaglia e poi, uscendo di corsa dalla cucina nel giardino posteriore, la fece cadere oltre il muro, in un letto di ortica. Non che ci fosse alcunché di incriminante nella sbarra ma, siccome l’aveva usata come un’arma, aveva acquisito un aspetto piuttosto sinistro ai suoi occhi.
Ora intuiva che sarebbe stato meglio partire subito per la stazione. Non era ancora l’ora, perché erano appena le sette e venticinque, ma non desiderava essere trovato in casa se qualcuno fosse venuto. La sua coppola era sul sofà insieme alla borsa, a cui era legato l’ombrello. Si mise il cappello, prese la borsa e uscì dalla porta; poi tornò indietro per spegnere la lampada. E fu il quel momento, mentre stava in piedi con la mano alzata verso il bruciatore, che l’occhio, spostandosi per caso nell’angolo in ombra della stanza, si soffermò sul cappello di feltro grigio di Brodski, posato sulla sedia dove lo aveva messo quando era entrato in casa. Silas rimase per alcuni istanti pietrificato, con la fronte imperlata dal sudore freddo, dovuto alla paura mortale. C’era mancato poco: avrebbe spento la lampada, sarebbe partito e poi… A grandi falcate andò verso la sedia, afferrò il cappello e guardò al suo interno. Sì, c’era il nome “Oscar Brodski” scritto chiaramente sulla fodera. Se fosse andato via, lasciandolo dove poteva essere scoperto, sarebbe stato perso; inoltre, se una battuta di ricerca fosse arrivata a casa sua in quell’istante, sarebbe stato abbastanza per mandarlo al patibolo.
Le sue membra tremarono d’orrore al pensiero, ma nonostante il panico non perse il controllo di sé. Sfrecciando in cucina, afferrò una manciata di rametti che teneva per accendere il fuoco e li portò al camino del soggiorno, li gettò sui tizzoni estinti ma ancora caldi. Accartocciò il foglio che aveva piazzato
sotto la testa di Brodski – sulla cui superficie ora aveva notato, per la prima volta, una piccola macchia di sangue –, lo mise sotto il legno e con un cerino gli diede fuoco. Quando il legno si incendiò, fece a pezzi il cappello con il suo coltellino tascabile e ne gettò le strisce nel fuoco.
Per tutto il tempo, il suo cuore martellava e le sue mani tremavano per la paura di essere scoperto. I frammenti di feltro non erano affatto infiammabili, tendevano a fondere in masse nerastre che fumavano e diventavano incandescenti, piuttosto che a bruciarsi fino a ridursi in cenere. Inoltre, con suo sgomento, emettevano un potente puzzo di resina misto all’odore di pelo bruciato, quindi aveva aperto la finestra della cucina (poiché non aveva osato aprire la porta d’ingresso) per disperdere il fetore. E ancora, mentre metteva sul fuoco i pezzetti che tagliava, aguzzava le orecchie per percepire, oltre il crepitio della legna, il suono dei temuti passi, il bussare alla porta che sarebbe stato come il segno del Destino. Anche il tempo stava scorrendo sempre più in fretta. Erano le otto meno venti! Entro pochi minuti doveva uscire o avrebbe perso il treno. Lasciò la falda del cappello smembrato sulle fiamme e corse al piano di sopra per aprire una finestra, poiché doveva chiudere quella della cucina prima di partire. Quando tornò, la falda si era già accartocciata in una massa nera e incombusta che emetteva schiuma e sibilava, mentre un fumo acre e grasso si alzava pigramente verso la canna fumaria.
Solo diciannove minuti alle otto! Era ora di andare. Prese un attizzatoio e con cura batté sulla massa incombusta per sminuzzarla e mescolarne le piccole parti alle braci incandescenti del legno e del carbone. Non c’era nulla di insolito nell’aspetto della griglia del camino. Era sua regolare abitudine bruciare lettere e altre cose da gettare nel camino del soggiorno: la sua governante non avrebbe notato niente di strano. In effetti, il residuo del cappello probabilmente sarebbe stato ridotto in cenere prima che lei tornasse. Aveva controllato che nel cappello non ci fossero rifiniture o altre parti in metallo, che avrebbero potuto sfuggire alla combustione. Prese di nuovo la sua borsa e diede un’ultima occhiata in giro, spense la lampada e, schiusa la porta, la tenne aperta per alcuni istanti. Poi uscì, chiuse a chiave, si mise in tasca la chiave (di cui la governante aveva un duplicato) e si avviò a passo svelto verso la stazione.
In fin dei conti, arrivò in tempo e, preso il biglietto, si diresse a grandi falcate al marciapiede del binario. Il treno non era ancora stato annunciato, ma sembrava esserci un’insolita agitazione sul luogo. I passeggeri erano ammassati in gruppo a un’estremità del marciapiede e guardavano tutti in una direzione in lontananza sul binario; quando andò verso di loro, anche se con tremolante, nauseante curiosità, due uomini emersero dall’oscurità e risalirono il pendio fino al marciapiede, portando una barella coperta di una tela cerata. I passeggeri si divisero per lasciar passare i barellieri, dirigendo uno sguardo affascinato alla forma che si distingue va malamente attraverso la copertura grezza e, quando la barella fu messa nel deposito, fissarono la loro attenzione su un facchino che veniva dietro, portando una borsa e un ombrello. All’improvviso, uno dei passeggeri si fece avanti eccitato.
«È il suo ombrello?» esclamò.
«Sì signore» rispose il facchino, fermandosi e tenendolo in modo che il viaggiatore potesse ispezionarlo. «Mio Dio!» sbottò il passeggero e poi, girandosi di scatto verso un uomo alto lì vicino, disse con eccitazione: «È l’ombrello di Brodski. Ci potrei giurare. Si ricorda di Brodski?».
L’uomo alto annuì e il passeggero, rivolgendosi di nuovo al facchino, disse: «Io identifico questo ombrello. Appartiene a un gentiluomo chiamato Brodski. Se guardate all’interno del suo cappello, vedrete che c’è scritto il suo nome. Ve lo scrive sempre».
«Non abbiamo ancora trovato il suo cappello» disse il facchino «ma ecco il capostazione che arriva dal binario». Attese il suo superiore e poi annunciò: «Questo gentiluomo, signore, ha identificato l’ombrello». «Oh» disse il capostazione «lei riconosce davvero l’ombrello? Allora forse vorrà venire nel deposito e vedere se può identificare il corpo?».
Il passeggero indietreggiò allarmato.
«È… è… molto maciullato?» chiese tremolante.
«Be’, sì» fu la risposta. «Vede, la locomotiva e sei vagoni gli sono passati sopra, prima di riuscire a fermare il treno. È stato decapitato di netto, in effetti».
«Scioccante! Scioccante!» ansimò il passeggero. «Io credo, se mi posso permettere… I-Io preferirei di no. Lei non crede sia necessario, dottore, vero?».
«Sì, invece credo che lo sia» replicò il tipo alto. «Un’identificazione rapida può essere della massima importanza».
«Allora devo proprio» disse il passeggero.
Con molta riluttanza, si lasciò condurre dal capostazione al deposito, mentre la campana annunciava l’arrivo di un treno. Silas Hickler li seguì e prese posto nella folla in attesa, dietro la porta chiusa. Pochi attimi dopo, il passeggero saltò fuori, pallido e sbalordito, e corse dal suo amico alto. «È lui!» esclamò senza fiato. «È Brodski! Povero vecchio Brodski! Orribile! Orribile! Dovevamo incontrarci qui e continuare insieme per Amsterdam».
«Aveva qualche… qualche mercanzia su di lui?» chiese il tipo alto e Silas aguzzò le orecchie per afferrare la risposta. «Aveva alcune pietre preziose, senza dubbio, ma non so cosa. Il suo commesso lo saprà, ovviamente. Ad ogni modo, dottore, potrebbe sorvegliare questo caso per conto mio? Giusto per essere sicuri che sia stato davvero un incidente oppure… lei sa cosa. Eravamo vecchi amici, sa, concittadini anche; siamo nati entrambi a Varsavia. Mi piacerebbe che lei dia un’occhiata al caso». «Va bene» disse l’altro. «Mi accontenterò… di verificare che non ci sia nient’altro che salti fuori e le farò un rapporto. È sufficiente?». «Grazie. È davvero generoso da parte sua, dottore. Ah! Ecco che arriva il treno. Spero che non la disturbi restare a sorvegliare questo problema».
«No, affatto» replicò il dottore. «Non ci aspettano a Warmington prima di domani pomeriggio e credo che potremo appurare tutto il necessario e arrivare in orario al nostro appuntamento».
Silas guardò a lungo e con curiosità l’uomo alto e imponente, che si stava sedendo al tavolo degli scacchi per giocare contro di lui una partita, in cui era in palio la sua vita. Sembrava un formidabile antagonista con il suo volto intenso e riflessivo, così calmo e risoluto. Quando Silas salì nel convoglio, si voltò a guardare il suo avversario e, pensando con grande disagio al cappello di Brodski, sperò di non essere incappato in altre sviste.
Estratto da “Il caso Oscar Brodski” di Richard Austin Freeman, traduzione di Fiamma Toscano, contenuto in “Delitti al sole” AA.VV., Elliot edizioni.
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