Una sola parola aleggia in tutte le storie di quel condominio nel cuore di Brera: vendetta. Ci sono rancori storici giunti da Oltreoceano e altri che ancora non sanno neanche di esistere. C’è anche lo strisciare di recriminazioni tra gli inquilini di quei pianerottoli, ma ogni divergenza scompare per proteggere il palazzo e i suoi abitanti. Contro questa giustizia privata e questo muro tirato su da Edda Vargas e dalle sue ragazze si trova a dover fare i conti Norma Gigli, la poliziotta che sogna le Volanti ma che è costretta alla scrivania degli Scomparsi.
Propria da una di quelle noiose denunce prende il via l’ultimo libro di Deborah Brizzi, La stanza chiusa (ed. Mondadori 2018). La vendetta come dicevamo è il filo che collega i buoni e i cattivi di questa storia. D’altra parte è uno di quei sentimenti che ti crescono dentro e che trasformano anche le tue migliori qualità in armi affilate per portare a termine il tuo piano.
C’è un intreccio di vite, speranze deluse e oscuri segreti, forse anche troppo fitto per trovarne un capo. Starà alla Gigli ricostruire legami e ragioni di ciascun evento. La poliziotta si troverà a dover interpretare Marta, Giuliana, Agata, Marina e un mondo di donne all’apparenza ordinarie con le loro storie tutte da decifrare. La viceispettrice Gigli dovrà leggere anche tra le righe di una vita borghese quella del dottor Antonio Guareschi e dalla moglie Clara. Tutto questo in un back and forward continuo. Il lettore è quasi sempre un passo avanti rispetto alle indagini, conosce prima di lei le ragioni che hanno portato a quella sparizione ed è naturalmente spinto a parteggiare per il “cattivo”.
Il sessismo da divisa non è assolutamente nascosto e la scrittrice ha tutte le carte in regola per sapere di cosa parla essendo poliziotta lei stessa. Non sono solo le mura della questura però a vedere emergere le questioni di genere. Quasi ogni situazione e la vita di ogni personaggio del racconto contiene degli elementi per raccontare un aspetto diverso della discriminazione verso le donne, della violenza che possa subire il sesso femminile e del modo di reagire che le diverse protagoniste hanno. C’è però anche di più, la storia è anche un condensato di come alcuni uomini con dei tarli mentali possano vedere nei corpi delle donne, in qualsiasi loro gesto o nelle loro occhiate uno strumento per il piacere maschile.
Non è solo l’uomo però ad essere in qualche modo l’accusato eccellente della Brizzi. Ci sono infatti anche le inquiline del palazzo di via Brera sotto la lente di ingrandimento della scrittrice. La vendetta privata, il modo di usare il proprio corpo, le ferite provocate in ciascuna delle donne che incontra l’ispettrice nella sua indagine saranno giudicate, capite, coccolate o odiate anche dai lettori. Ciascuno si formerà la sua idea su Marta, così come su Edda e sulla stessa Gigli. L’unica certezza che si può avere man mano che si prosegue nella lettura è che queste donne ad un certo punto hanno deciso di autodeterminare le loro vite e di non farsi più definire. Il momento in cui lo hanno fatto? Quando sono entrate nel condominio.
Un altro elemento interessante è che la città non è mai, o quasi il luogo in cui avvengono i reati di questo romanzo. La doppia vita del buon alto borghese milanese, del dottore dalla specchiata professionalità prende forma e vita a Paderno Dugnano. Quindi lontano dagli occhi di amici e conoscenti Guareschi si trasforma. Per sottolineare ancora di più questa doppiezza la Brizzi sceglie di rappresentare il personaggi in due luoghi: quello della vita ordinaria e quello delle sue nefandezze.
In occasione dell’uscita del libro abbiamo intervistato Deborah Brizzi e abbiamo cercato di fare chiarezza su come la scrittrice e le sue donne vedono il mondo.
Nella storia si intrecciano molti tipi femminili, tutti in cerca di riscatto da storie difficili e ognuna ha una sua forza. Sono donne contemporanee. Per molto tempo in romanzi di questo tipo donne come le sue non sarebbero esistite, cosa pensa sia cambiato?
Beh, è cambiato il diritto. Si è raggiunta legalmente la parità e anche se può sembrare un dettaglio, quando una legge concede dei diritti la società cambia, lentamente, ma cambia. Pensi all’ultima legge sulle unioni civili.
Noi donne ora non abbiamo più barriere apparenti, non abbiamo più mestieri preclusi e questo ha modificato radicalmente la percezione che la società ha di noi. Abbiamo preso parte attiva e passiva alle elezioni il 2 giugno 1946 per la prima volta, tardissimo quindi, e non scordiamoci che fino al 1963 non potevamo entrare in magistratura. Ora le donne magistrate sono il 52%. E ancora, possiamo prestare servizio in corpi militari solo dal 2000. Le barriere di genere, insomma, sono infrante, ma la nostra società è retriva e lenta nello spostarsi, c’è ancora tantissimo lavoro da fare per arrivare ad una parità reale.
Il noir è stato un genere maschile sia in fatto di personaggi che per quel che riguarda gli autori. Crede che sia ancora così?
Diciamo che il ruolo di protagonista in generale, è stato appannaggio esclusivo degli uomini per tanto tempo, la donna era fino a poco tempo fa “la moglie di…”. Quando ero bambina mi immedesimavo sempre in personaggi maschili perché trovavo noiosissimo il ruolo riservato alle donne. Erano o principesse in attesa del principe o poverelle che diventavano principesse, premiate per le loro eccelse virtù, che comprendevano sempre la bontà e l’obbedienza.
È stato questo il problema di genere nel mondo del noir?
Per assurdo il noir, almeno quello cinematografico che conosco molto meglio, per quanto negativa, introduce una figura femminile protagonista: la Dark Lady. La Dark Lady è sicuramente il personaggio più divertente e anticonformista del noir: è ribelle, cattivissima, intelligente, sessualmente disinibita e di solito non dipendente da un uomo. Infatti muore. Sempre. Hollywood fa pagare cara la trasgressione di ruolo alle donne del noir. Nei miei libri io tento di mandare il messaggio opposto: tendo a non far morire mai chi si ribella agli stereotipi e ho creato una protagonista donna. Le bambine devono sapere che ci sono alternative alle barbosissime principesse e dovrebbero avere personaggi con diverse femminilità nei quali immedesimarsi. A noi, bambine degli anni settanta, questo era ancora precluso, abbiamo dovuto aspettare Lady Oscar.
Com’è essere una scrittrice di noir?
Non so dire come sia essere una scrittrice di noir. Non mi sono mai definita una scrittrice, ma non per falsa modestia, dirò di essere una scrittrice quando lo scrivere mi permetterà di mantenermi. Per ora sono una poliziotta con l’hobby della scrittura. Ed è difficile. È difficile perché scrivere lavorando aggiunge moltissimi ostacoli. Innanzi tutto la totale mancanza di tempo per fare ricerca, io amo raccontare aneddoti sui luoghi nei quali ambiento le storie, Milano nella fattispecie, e farlo senza scrivere sciocchezze richiede del tempo, molto tempo per documentarsi. Per terminare “La stanza chiusa” ho investito tutti i miei giorni di vacanza.
E una poliziotta? In entrambi i casi si tratta di ambienti con un dna decisamente maschile e in cui devono esserci molti stereotipi. Ne fa alcuni accenni anche quando Norma arriva in questura.
Fare la poliziotta, invece, di questo posso parlare, sì. È un mestiere duro. Soprattutto gli ambiti operativi, fare Volante, per una donna, è difficilissimo. Ho lasciato le Volanti diversi anni fa, ma quando guardo negli abitacoli delle “Pantere” vedo sempre meno donne. Molto di questo spopolamento lo dobbiamo al vincolo di assunzione a favore dei volontari in ferma breve, ovvero per entrare in polizia si deve per forza fare il militare volontario. Praticamente in Polizia l’ultimo concorso aperto è stato nel 1998. Non serve che spieghi che un conto è scegliere di fare il poliziotto, altro è accettare di fare il militare per poi transitare nelle forze dell’ordine. Grazie a questa trovata la percentuale di donne in Polizia è drasticamente calata. La discriminazione, in questo caso, è stata politica, ma anche di questo nessuno parla.
Lei è tra quegli autori che usa anche il linguaggio per sottolineare le differenze di genere. Perché?
Sono un’autrice che attraverso il linguaggio tenta di attenuare le differenze di genere! La domanda è riferita al fatto che chiamo Norma “Ispettrice”? Uso correttamente la lingua italiana, in realtà. Ogni mestiere ha un corrispettivo femminile, non usarlo è semplicemente un errore, non una scelta.
No in realtà mi riferivo all’uso di “ispettora” quando Norma incontra Edda. Crede che quella “a” che sia così importante?
L’importanza di questa battaglia, che viene svilita dai più con un sorrisetto di degnazione, è direttamente proporzionale proprio alla resistenza che incontra da parte di uomini e donne. Non è un caso che il femminile di alcune professioni venga usato senza problemi – si pensi a cameriera, maestra, commessa, parrucchiera –, ma che ci sia una derisione sarcastica all’uso del femminile per altre professioni, come magistrata, ministra, direttrice, avvocata, notaia. È davvero un caso o più il mestiere definisce una posizione sociale preminente più c’è una resistenza a declinarlo al femminile? Anche le donne contribuiscono a questo blocco, senza accorgersi che farsi chiamare “direttore” e non “direttrice” non è una conquista. La convinzione che l’adozione al maschile di una qualifica professionale sia una vittoria significa infatti l’opposto; significa credere che una collocazione lavorativa sia importante solo se qualificata al maschile, che essere “ministro” dà autorità ed essere “ministra” sia umiliante.
Faccio notare, comunque, che Torquato Tasso usava già la parola “ministra” e nessuno si sogna di sbeffeggiarlo.
Le donne della Stanza chiusa cosa rappresentano? Con le loro storie ha affrontato alcuni dei problemi di genere più tristemente comuni: la violenza sulle donne, matrimoni di convenienza, donne che devono imparare ad amare il loro corpo.
Le donne della Stanza chiusa sono un collage di esperienze di vita. Ho scelto la vendetta, come tema portante di questo libro, perché mi trovavo bloccata all’interno di un percorso. Risolto quasi tutto mi sono resa conto di non avere il coraggio di affrontare personalmente l’ultimo pezzettino irrisolto, allora ho pensato che farlo fare ad uno dei miei personaggi sarebbe stato catartico. Così ho iniziato a chiedere alle persone che avevo intorno cosa fosse per loro la vendetta e di cosa e come, se avessero potuto, si sarebbero volute vendicare. Molte di quelle storie hanno caratterizzato i miei personaggi femminili.
Le sue protagoniste sono al contempo il volto positivo delle nuove donne e quello negativo. Sono delle paladine che si fanno giustizia da sole, ma in alcuni casi anche vittime…
Come dice Alice Miller “non tutte le vittime diventano carnefici, ma tutti i carnefici sono stati vittime”. Io sono profondamente d’accordo con questo aforisma: il dolore, la violenza, l’umiliazione quasi sempre producono dolore, umiliazione e violenza. Anche la vendetta fa parte di questo circolo di orrore, nel quale più o meno consapevolmente, tutti noi ci troviamo. Essere vendicatrici o vittime non sono due rappresentazioni differenti ma due facce della stessa.
Quanta strada crede ci sia ancora da fare per poter superare i problemi di genere, sia nella società che nei romanzi?
Tantissima. Una strada infinita, tutta in salita. Per percorrerla abbiamo bisogno degli uomini, perché senza di loro non si va da nessuna parte. Abbiamo bisogno che muti profondamente la costruzione del maschile e del femminile. Che ai bambini maschi non venga più negata l’emotività, perché ucciderla crea mostri e che alle bambine venga permesso di arrampicarsi sugli alberi e di sporcarsi il vestitino. Se si riducessero le distanze artificiali tra maschile e femminile ci divertiremmo tutti molto, molto di più.
MilanoNera ringrazia Deborah Brizzi per la disponibilità