Saluto con autentico piacere il ritorno alla scena letteraria crime di Simone Togneri, autore di sensibile qualità che già mi convinse fin dalla sua prima prova letteraria. Quel Dio del Sagittario (Età dell’acquario, 2006, poi pubblicato da Fratelli Frilli Editori nel 2016, in versione aggiornata) che inscenava con drammatica suggestione due temi a prima vista contradditori: arte e delitto.
Un accostamento singolare, parrebbe. Che mai può accomunare l’arte, la più nobile tra le espressioni creative, alla follia distruttiva che è spesso alla base di un omicidio? Binomio non così bizzarro, però, se si riflette sul fatto che nell’artista l’immaginazione è il fulcro, il motore della sua opera, ma altrettanto lo è per l’omicida seriale che attraverso le sue fantasie, perverse certo, dà vita a una seppur distorta creatività.
Di arte comunque ce n’è tanta nei romanzi fin qui pubblicati da Togneri, artista di accademia lui stesso, disegnatore umoristico pluripremiato, musicista. E scrittore, che dipinge con le parole.
Nella coppia investigativa da lui creata, il commissario fiorentino Franco Mezzanotte e il suo collaboratore Simòn Renoir, poliziotto poi uscito dai ranghi ufficiali, è quest’ultimo a esercitare l’arte. Pittore di talento che non crede in se stesso, è ossessionato dalla “fine delle cose”, da ciò che deperisce, e continua a raffigurarne l’evidenza mortale con disperata sensibilità.
Mezzanotte, sbirro ruvido e fuori dagli schemi ma dotato di un incrollabile senso di giustizia, si affida all’intuito dell’altro per trovare la variabile discordante, quel tassello invisibile che spesso porta alla risoluzione del caso. E soprattutto si affida alla sua singolare capacità di percepire le variazione dei colori dell’animo umano.
Non può farlo però nel caso al centro di Giallo hotel Firenze, anzi nei tre casi, perché Simòn giace in un letto d’ospedale per un brutto incidente, una caduta da un ponteggio – ora fa l’imbianchino – che lo ha ridotto in coma. E, forse, non cercherebbe comunque il suo aiuto perché da un anno non si parlano.
È solo Mezzanotte, pur con la sua squadra che non lo abbandona a dispetto dei suoi modi rudi, perché è privo del suo braccio destro, quasi un figlio anche se lui non lo ammetterebbe mai.
È solo ad affrontare il mistero di un giovane africano picchiato a sangue e caduto in un sonno da cui non riesce a svegliarsi, il doppio omicidio di una coppia freddata in casa propria e un incidente d’auto che forse non lo è ma che ha causato la morte di un anziano. Tre casi slegati che forse finiranno per intrecciarsi.
È solo Mezzanotte, in una Firenze che mai come ora pare divisa a metà, «la città dei monumenti, di Dante e Michelangelo, della luce eterna della bellezza», ma anche la città del Mostro. Luce e tenebre, arte e morte.
E ombra, quella dell’hotel Firenze, che non è un albergo ma un “non luogo” in cui sperano i tanti disperati della clandestinità, del lavoro nero, quei «meschini che svolgono i lavori più pericolosi per dieci o dodici ore al giorno in barba a qualsiasi norma di sicurezza […] con il terrore di essere rispediti al loro paese di origine […] e che vivono senza esistere. Come fantasmi».
Contro questa realtà sotterranea e indegna Mezzanotte si impegnerà allo spasmo, senza Simòn ma con il suo involontario aiuto: dal suo letto d’ospedale infatti, casualmente accanto a quello del giovane africano, in un’alternanza di coscienza e sonno, Renoir riferirà un’impressione che si rivelerà decisiva nella soluzione dell’indagine.
Una storia di oggi, che assume un valore emblematico: un grumo di storie personali e pubbliche, un intreccio di pulsioni e passioni che si dipanano e si svelano, senza una vera condanna, senza una coloritura moralistica, a eccezione dello sfruttamento degli ultimi, narrato con profonda empatia e vibrante di denuncia. In ciò assolvendo il fine primario del noir, il risveglio della coscienza di chi legge.
I due protagonisti non hanno connotazioni fisiche, Togneri lascia ai lettori la libertà di vestirli. Anche se poi lo spazio di immaginazione è limitato, tanto eloquenti sono i loro gesti, le espressioni, i sentimenti che li muovono e che li identificano, ben più e ben oltre i caratteri somatici.
Mezzanotte, con i suoi eccessi verbali e i suoi silenzi, il passato che lo zavorra, un mestiere che è diventato la sola vita che sa vivere, con partecipazione però e con una sua ruvida capacità di amare. Che non può manifestare, né tradurre in concreto perché troppo grande è il senso di colpa per gli errori commessi, di cui è dolorosamente consapevole. Mezzanotte con le sue infinite sigarette, contrappunto all’imbarazzo o alla riflessione, all’incertezza o al dubbio.
E Simòn, mai così assente dal racconto e così presente nei sentimenti del commissario. Simòn che domina le pagine dedicate al suo oscillare tra il sonno del coma e il risveglio, tra le più poetiche del romanzo. Sprofondato in quel mondo, il regno di Retropalpebra, dove i suoni diventano colori e le immagini si ascoltano. Al «buio dietro le palpebre[dove]un attimo è un milione di anni».
Un romanzo sinestesico per davvero, narrato con scrittura piana, senza ricorso a preziosismi eppure vibrante di figure, voci, odori, sempre colti con animo d’artista. Nel bene e nel male.
Tra i personaggi, materici tutti, un ruolo di primo piano spetta all’Arno che «con il suo scorrere lento, fa ristagnare spazzatura e pensieri in mulinelli che non trovano quiete». L’Arno, che pare indifferente al suo carico di veleni, ma che di volta in volta si anima delle passioni che gli si muovono attorno, per diventare «una pozza nera che di notte ha lo stesso colore del buio». Grigio più spesso, sotto la pioggia di un marzo inesorabile, «sottile e gelida [a] penetrare la pelle come minuti aghi d’acciaio».
Mi fermo qui, anche se tanto altro ci sarebbe da dire, perché voglio lasciare al lettore il piacere della scoperta di una lettura da non perdere.