Il bambino che disegnava le ombre .Intervista a Oriana Ramunno


Nata a Rionero in Vulture in Basilicata, ma stabilitasi a Berlino dove vive con la sua famiglia, Oriana Ramunno è autrice di lungo corso che ha sperimentato diversi generi. È anche la curatrice di Delos Crime, la collana thriller della Delos Digital. Con “Il bambino che disegnava le ombre” varca i confini nazionali e approda anche al mercato inglese. 

L’abbiamo intervistata per Milanonera.

Ti chiami come una grandissima scrittrice, Oriana Fallaci, nome non a caso scelto dai tuoi genitori che mentre eri in viaggio per nascere, stavano leggendo e sono rimasti profondamente colpiti da “Un uomo”. Era già tracciato nel nome il tuo destino di scrittrice?
Il nome mi ha sicuramente spinto alla lettura della Fallaci e “Un uomo” è tra i miei libri preferiti, letto più volte e amato in maniera viscerale. Alla lettura e alla scrittura, però, mi ha avviato mia zia che, quando ero alle elementari, lavorava nella Biblioteca Comunale di Rionero in Vulture. Il primissimo libro che mi diede fu il Grande Gigante Gentile di Roald Dahl. Me lo ricordo ancora come un bellissimo sogno.

Sei un’autrice poliedrica che spazia dal romanzo storico alla fantascienza, dal racconto alle fiabe, dal giallo al thriller, conquistando ovunque premi e riscontri. Anche nelle letture sei onnivora. Qual è il segreto per non restare ingabbiati in un genere?
Non credo che esista un segreto. Semmai, nel mio caso, ha contato il fatto di essere stata una grande lettrice prima ancora di cimentarmi con la scrittura, e l’aver letto un po’ tutti i generi. Per ora mi sento comoda nel giallo e nel thriller, ma la sfida vera è lasciare la propria zona di comfort. 

In un precedente romanzo, “L’amore malato” pubblicato nel Giallo Mondadori, hai affrontato il difficile tema della violenza sulle donne. La protagonista, Emma Acciaio, è affetta da alopecia universale che mette in crisi il suo essere donna.  Quanto è importante per un autore entrare in empatia coi propri personaggi?
Importantissimo. Io, scherzando, dico sempre che applico alla scrittura il metodo Stanislavskij, che è un metodo che appartiene a un’altra mia passione: il teatro. Entro in sintonia con i protagonisti, a volte durante la giornata mi capita di pensare come loro, mi chiedo cosa farebbero in una certa situazione al mio posto. Non metto mai nulla di mio nei miei personaggi, ma alla fine in un certo senso li “fagocito”, li sento totalmente miei e diventiamo un tutt’uno. Questo rende un po’ malinconico il momento della parola “fine”, come quando devi dire addio a un caro amico. Quanto a Emma Acciaio, l’ho amata tantissimo: forte e fragile, femminile quanto maschile, semplicemente un essere umano sfaccettato, unico come ogni persona lo è, con un passato tormentato ma che è stata in grado di canalizzare tutto il dolore per trasformarlo in energia. Non la dimenticherò mai e spero di rivederla tra le mie pagine, un giorno.

Prima dell’esordio con Rizzoli in Italia e Harper e Collins nel Regno Unito, hai sfiorato la vittoria al prestigioso Premio Tedeschi nel 2017 col romanzo Moloch. Avremo modo di leggerlo?
Non credo. Ci sono storie che, secondo me, devono restare nel cassetto. Amo “Moloch”, ma non mi rispecchia più come autrice. Lo custodirò, a ogni modo, perché è prezioso.

Andiamo a “Il bambino che disegnava le ombre”. Quanto ha influito nel raccontare la storia di Gioele e di tanti altri bambini ebrei, il tuo essere madre di tre splendidi bambini, Samuel, Elia ed Emanuele, che hanno più o meno la sua età?
Tanto. I bambini hanno una capacità di adattamento impressionante e una gran dose di purezza e ingenuità che li tiene al riparo dalle brutture del mondo: è questo che tiene in vita Gioele nel campo, non solo fisicamente ma soprattutto moralmente. Le analogie terminano qui, perché i miei figli appartengono a quella piccola fetta di bambini nata nel momento storico giusto e nella parte fortunata del mondo. Come tutti i bambini di questa parte di mondo “perfetta” sono anche un po’ viziati e non si accorgono dei loro privilegi: ecco, il mio obiettivo di genitore sarà renderli consapevoli della loro fortuna e consapevoli che la restante fetta di bambini sta al freddo in un campo profughi, ruba per mangiare e affronta le spaventose onde del mare per vivere meglio. 

La scelta di ambientare un romanzo ad Auschwitz sottende una motivazione profonda oltre che coraggiosa, stante gli innumerevoli e illustri precedenti. Quale molla ti ha spinto? Forse i racconti dello zio Angelo, deportato nel campo di concentramento di Norimberga che è stato testimone diretto degli orrori dei lager nazisti?
Nasce tutto dalla testimonianza di mio zio Angelo. Fu catturato a Durazzo e portato a Norimberga. Già solo il viaggio, che mi descrisse con dovizia di dettagli, avrebbe ucciso ognuno di noi. Dal campo di lavoro fu poi spostato in un campo “di morte” per aver deriso pubblicamente Hitler. Il suo è stato un racconto toccante, che mi ha fatto capire che non era tutto solo nei film e nei libri, ma che avevamo dei testimoni di quegli orrori proprio di fianco a noi. Adesso l’era del testimone sta passando e questo rende ancora più necessaria la Memoria, perché l’uomo ha la tendenza ad averla corta.

Nel tuo romanzo oltre la ricerca storica e la cura dei dettagli, colpisce la parola scolpita, quasi levigata, che dà spessore e corposità ai personaggi e fa passare in secondo piano la trama che pure è avvincente e lascia il segno. Quanto conta lo stile nel raccontare storie?
Io amo scrivere e amo leggere, e per me lo stile ha una grande importanza. Se un libro è scritto bene, l’autore riesce a veicolare meglio il proprio messaggio e a raggiungere il lettore con un’emozione.

Come è nato il tuo singolare protagonista, il criminologo Hugo Fischer, anche lui fisicamente provato da una malattia invalidante, la sclerosi multipla, che si ritrova a indagare su un caso di omicidio nel luogo simbolo dell’orrore dove gli omicidi venivano compiuti a migliaia ogni giorno?
All’università ho avuto modo di studiare l’ascesa del nazismo con un monografico interamente dedicato all’Olocausto. Già allora mi ero chiesta come poteva essersi approcciato un normale tedesco a tutto questo e quali erano stati i motivi del consenso a Hitler. Nel mio percorso di studi, la Shoah è tornata durante un esame di sociologia, in cui ho avuto modo di approcciarmi a Adorno, Staub, Milgram e Zimbardo, tutti studiosi che hanno cercato di dare una risposta al comportamento del tedesco “comune” durante il nazismo. Dopo aver letto “I sommersi e i salvati” di Levi, e in particolare il suo carteggio con i lettori tedeschi, la domanda è tornata più prepotente di prima ed è stato allora che è nato il protagonista del mio libro. Hugo Fischer è il tedesco medio che non condivide i principi di partito, ma che rimane intrappolato nella macchina: accetta passivamente quello che sta succedendo in Germania per mantenere il lavoro e per preservare la propria vita, essendo affetto da una di quelle malattie per cui si incorreva nella sterilizzazione o, peggio, nell’eutanasia. Molti tedeschi sono rimasti intrappolati in questi ingranaggi di quieto vivere e hanno preferito far finta di non vedere, rendendosi a volte direttamente responsabili. Pochi sanno che in realtà c’è stata anche una resistenza, puntualmente soffocata nel sangue, di persone che a questo quieto vivere non si sono affatto piegate.

A distanza di settant’anni dell’orrore scientemente organizzato nell’anus mundi, come Auschwitz era soprannominato, nel tuo libro si respira intatto l’atroce destino di tante creature umane. Quanto hai dovuto documentarti per arrivare a tal punto di verosimiglianza?
Ho avuto modo di studiare l’Olocausto all’università, ma la maggior parte delle testimonianze e delle letture le ho reperite a Berlino al Topographie des Terrors, un centro di ricerca nato per documentare e ricercare il sistema del terrore instaurato dai nazionalsocialisti in Germania. Le letture più utili, invece, soprattutto dal punto di vista umano, sono state quelle di Primo Levi, una penna unica e ammirabile, e di Hannah Arendt.

Quali aspetti in particolare ti piacerebbe che i tuoi lettori cogliessero nel “Il bambino che disegnava le ombre”?  
La resistenza. Ovunque e in ogni luogo, chi resiste ha ancora un barlume di luce per superare la morte

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MilanoNera ringrazia Oriana Ramunno per la disponibilità.

Roberto Mistretta

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