Il diavolo, probabilmente: incontro con Giona A. Nazzaro

Giona A. Nazzaro, (Zurigo, 1965), giornalista pubblicista e critico cinematografico, autore di diversi testi dedicati al cinema e al mondo della musica, è da poco approdato alla narrativa di genere, con la raccolta di racconti horror gotici A Mon Dragone c’è il diavolo. A credere (a ragione) nei suoi mezzi espressivi è Perdisa Editore, la cui collana Perdisa Pop, diretta con penna sicura da Luigi Bernardi, continua a proporre i migliori talenti della moderna scena letteraria italiana. 

Quanto tempo hai impiegato a scrivere i racconti?

In assoluto non molto. I racconti mi si presentavano uno dopo l’altro come una rivelazione profana. Le prime parole erano quelle del titolo. Una volta scritto il titolo, il resto conseguiva inevitabile, con una sua logica inderogabile, alla quale non sono mai riuscito a sottrarmi. I personaggi mi si presentavano dotati di una loro voce. Non ho avuto altra scelta che trascrivere le caratteristiche e le modalità con le quali mi si sono presentati. La mia libertà di scrittore e stata di porli in esistenza come un ufficiale dell’anagrafe che deve documentare persone date erroneamente per scomparse e finalmente ritornate al paese d’origine. O al paese dal quale si erano allontanate moltissimo tempo prima. Più che scrivere, ho trascritto. Poi, certo, c’è stata la fase di riscrittura. Ma anche in quel caso, si trattava di dettagli, di spostamenti progressivi dei margini del piacere. 

Mon Dragone come luogo dell’anima: potrebbe essere questa una chiave di lettura della tua antologia?

Il luogo dell’anima  è il processo dello scrivere stesso. Non sono un sociologo. Non mi occupo di giornalismo d’inchiesta. Tutto esiste nel perimetro della scrittura. Niente al di fuori di esso. Mon Dragone è ciò che mi è accaduto mentre scrivevo.  

Mi ha molto colpito la qualità della tua scrittura: hai una costruzione del periodo particolare, molto articolato ed elaborato. Una precisa scelta stilistica, immagino…

Non credo molto alle trame, anche se adoro quelle ineluttabili e implacabili; credo molto all’identità della scrittura. Persino chi non ha letto Joyce o Gadda ha una vaga idea di cosa sia la loro scrittura. La scrittura è un mondo a parte, migliore forse, anche se a volte estremamente doloroso da rivelare e da abitare. La mia ambizione e presunzione era che la mia scrittura potesse essere riconosciuta come luogo dove accadono alcune cose. E non il contrario. Creare una scrittura-mondo. Un luogo dell’esilio possibile. Il riflesso negativo della libertà.  

Alcuni racconti mi hanno fatto pensare al grande Lovecraft, laddove sembri individuare il Male nella quotidianità, quando non nello squallore di certe esistenze. È un modello che hai tenuto presente?

Lovecraft mi interessa soprattutto per come è riuscito a rivelare un universo omogeneo e complesso attraverso una scrittura faticosa e non sempre ben scritta. Mi interessa il suo essere un cronista di altre dimensioni, la sua scrittura documentaria come un tentativo di trascendere i confini del genere che aveva eletto come propri. Lovecraft mi interessa come macchina scritturale. Esempio di automatismo proto-industriale che ambisce all’autorialità e all’accademia. In questo senso, Lovecraft è un esponente potentissimo di un’idea di esilio che mi coinvolge profondamente.  

Come spieghi il perdurante successo del Noir, e, sia pure in misura minore, della narrativa horror in Italia?

La bruttezza è  mediocre. La mostruosità è grandiosa. Diceva Victor Hugo. Meglio perire per mano di Jack Lo Squartatore, si fa per dire ovviamente, che farsi venire un esaurimento nervoso imbottigliati nel traffico alle sette e mezzo di mattina. Comunque diffido un po’ di quei noir che tentano di raccontare a tutti i costi alcuni aspetti sociologici della realtà e lo fanno adottando formule e slogan ideologici di riporto. 

Hai in programma altre incursioni nella narrativa?

È un po’ prematuro dirlo. Mi piacerebbe, ovviamente; soprattutto rischiare di cimentarmi con strade completamente nuove per me. La condizione primaria, però, è la stessa necessità di scrivere. In genere me ne accorgo dalla violenza con la quale storie e temi si affacciano alla mia attenzione. Quando delle storie vogliono essere raccontate a tutti i costi, è impossibile sottrarsi. 

Una domanda provocatoria per concludere: il Diavolo esiste?

Il Diavolo non esiste, ma si vede.

luigi milani

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