Il noir parla dell’anima individuale e della società. Intervista a Raul Montanari


Il vizio della solitudine.
Vizio significa dipendenza, cattiva abitudine, ma è anche il contrario della virtù. Qual è il significato che hai voluto dare al tuo titolo?

Un significato paradossale. Tutti consideriamo la solitudine una disgrazia da cui tenersi lontani; Ennio Guarneri, l’ex ispettore protagonista del romanzo, l’abbraccia come un vizio e ne fa una specie di fortezza… almeno all’inizio. Realizza alla lettera una bellissima frase di Leonardo da Vinci: “Sii solo e sarai tutto tuo”.

Qual è la domanda che sta all’origine di questa storia? La scintilla dell’ispirazione da dove è venuta?
Ti sembrerà strano, ma all’origine non c’è il protagonista bensì la ragazza che suona alla sua porta per vendergli “Lotta comunista”. Questa ragazza esiste davvero, anzi ho scoperto che a Milano è un mito perché è molto bella, è difficile non notarla benché non faccia niente per farsi notare. Un paio di volte si è fermata a parlare con me e, guardandola, mi sono chiesto cosa poteva significare un’apparizione come la sua alla porta di un uomo solo. Da qui è nata la figura di Ennio Guarneri, un uomo che vive in un pianeta lontanissimo da quello dove abita la ragazza. Ma lei, appunto, bussa alla sua porta.

Il vero noir è comunque sempre interiore, psicologico? Un noir dell’anima che poi si riflette sul resto?
Penso che il noir usi i meccanismi di suspense per parlare fondamentalmente di due cose: dell’anima individuale e della società. Questo romanzo è più centrato sull’Io, sulle ferite profonde del protagonista e sulla crisi di coscienza che deve affrontare quando, per aver voluto impedire un omicidio ordito da un’organizzazione segreta di giustizieri, è costretto a diventare un giustiziere lui stesso. I sentimenti e le emozioni che prova Ennio sono comuni a tutti: nostalgia, rimorso, paura, rabbia, desiderio; ma agli occhi del lettore è come se fossero proiettati su uno schermo più grande della vita di tutti noi, proprio in virtù della magia narrativa del noir.

C’è differenza tra narrare e scrivere?
Sì, in due sensi. Anzitutto, come già osservava Moravia, una persona può essere un narratore nato senza avere la capacità o il desiderio di esprimersi con la prosa letteraria. Mia nonna era un esempio perfetto: una bergamasca con la terza elementare, dotata di una fantasia incredibile. Ho imparato da lei il gusto di raccontare! La seconda differenza si nota fra gli autori: il narratore tende a mettere lo stile al servizio della storia che racconta, concentrandosi su ambientazione, personaggi e trama; lo scrittore, inteso come artista della scrittura, usa la storia quasi come un pretesto per far vivere sulla pagina le proprie invenzioni di stile, che peraltro nei grandissimi (Busi, per esempio) non sono mai fini a se stesse.

Ennio ha  scelto la solitudine. Però in un punto del libro dice:  incontrare Velardi ha alleggerito la mia solitudine. Era quindi una scelta volontaria o piuttosto una fuga?
Era una scelta. Con una componente di fuga, di rifiuto del mondo, di cui Ennio non era consapevole. Aristotele diceva che l’uomo è un “animale sociale”; è quasi impossibile portare fino in fondo una scelta di solitudine.

Più volte nel libro torna la frase “uccidere per una giusta causa”. Quanto è utopistico pensare che uccidere e giusto non dovrebbero nemmeno mai stare nella stesso periodo?
Non so. C’è una scena nel libro a cui tengo tantissimo, quella in cui Ennio, per curiosità o per sfogarsi, entra in una chiesa e confessa gli omicidi che ha compiuto. Il prete (che forse non gli crede nemmeno) gli fa notare che il quinto comandamento non prescrive semplicemente di non uccidere ma specifica: “non uccidere l’innocente e il giusto”. Anche la Scrittura quindi ammette la possibilità, a volte la necessità, di uccidere per prevenire un male maggiore.

C’è un’altra frase che mi ha colpito: il privilegio malinconico di non appartenere.
La scelta dei due termini in antitesi, privilegio e malinconico, mi dà sempre l’idea che la solitudine non sia una scelta, ma un ripiego, al massimo potrebbe essere il minore dei mali. E poi: è davvero possibile non appartenere a nulla? 
Questa domanda molto bella è parente della prima che mi hai fatto, sul titolo. Sembra che la solitudine, o il “non appartenere”, arrivino sempre accompagnati da qualcosa che li contraddice: quello della solitudine è un vizio, il non appartenere un privilegio, sì, ma venato di malinconia. Hai ragione a definirli un ripiego: io non ho nessun dubbio che la vera felicità stia nel vivere accanto a persone che si amano.  Certo, se queste persone non ci sono, non si trovano, o ci abbandonano, meglio la solitudine che una vicinanza cercata solo per paura o per convenienza.

Il vizio della solitudine è una sorta di diario scritto al presente ma con lo sguardo rivolto al passato, più a quello remoto che a quello prossimo. E’ per questo che hai inserito la spiegazione sul corretto uso dei tempi verbali?
Sì! La maestra da cui Ennio va a lezione era il personaggio perfetto per dare questa spiegazione a lui… e al lettore, senza averne l’aria. Queste sono le astuzie dell’artigianato letterario. Devo anche dirti però che la distinzione fra passato prossimo e passato remoto mi ha sempre affascinato perché contiene delle sottigliezze più esistenziali che grammaticali.

Perché Ennio vuole rifare le elementari? Una sorta di madeleine per un tempo in cui si avevano solo granitiche certezze, sogni e speranze e i dubbi e le paure venivano spazzati via da genitori e insegnanti?
Certamente sì. Ennio vuole ricongiungersi con il suo nocciolo originario, gli anni in cui un bambino incontra se stesso per la prima volta, prende coscienza di sé, dei propri sogni, delle proprie paure, di tutto. Credo però che Ennio, nella sua solitudine, stesse già cercando la donna, e che la maestra settantenne sia quasi una prefigurazione della ragazza che poi suonerà alla sua porta. A un certo punto Ennio lo dice: “tutto quello che faccio ha senso solo se è riflesso negli occhi di una donna, altrimenti è come se cadesse in un pozzo e si perdesse”. Sono d’accordo al cento per cento. Questo sguardo femminile, che può giudicarti, perdonarti, condannarti, manca moltissimo nella mia vita, ora.

E’ possibile leggere il dialogo finale con Greta come un confronto con la propria coscienza?
Ma certo. Greta è letteralmente la “cattiva coscienza” di Ennio. Il conflitto interiore di Ennio (devo o non devo uccidere questi uomini, al di là del fatto che meritano di essere uccisi?) diventa drammatico perché Greta glielo ripropone come scelta: o l’amore per lei o questi atti di giustizia sanguinari.

Inizi con un cormorano ( che mi ha fatto una tristezza infinita) e finisci con un corvo. C’è un motivo particolare?
Questi due uccelli si somigliano: il nome cormorano deriva da “corvus marinus”. La differenza è che il cormorano è un grande predatore che si nutre di pesci; il corvo è piuttosto un raccoglitore che si adatta a mangiare di tutto. Il passaggio dal cormorano del Prologo al corvo dell’Epilogo simboleggia la rinuncia, da parte di Ennio, a essere un predatore (uccide il primo uomo proprio sotto gli occhi del cormorano, la scena è vista dalla prospettiva dell’uccello). Essere un predatore è un modo di vivere più arrogante, più potente, ma più rischioso: infatti il cormorano del Prologo si è ferito andando a caccia di pesci e morirà. Il raccoglitore è più intelligente, più opportunista,  più consapevole dei propri limiti, e vivrà.

Si può tornare a volare?
“Tornerò a volare” è il pensiero che conclude il Prologo, ed è la speranza che il cormorano ferito esprime per farsi coraggio. Speranza vana, per lui: quando Ennio tornerà lì dove ha compiuto il primo omicidio lo troverà a terra, morto. Credo però che sì, possiamo sempre tornare a volare, fino alla fine.

E si può far davvero pace con i soliti se e con le strade non prese? 
Questa è una cosa in cui credo molto, sai? In altri romanzi l’ho detto anche più chiaramente. Io non credo che noi facciamo sbagli nella vita: sono convinto che facciamo, di momento in momento, la cosa che ci sembra onestamente la migliore da fare. Con un po’ di fortuna questa serie di scelte, di sentieri presi ai bivi che la vita ci mette davanti, ci porteranno in un posto dove staremo bene, ma naturalmente può anche non succedere. In ogni caso è inutile avere rimpianti e dire: “Se avessi preso quell’altra strada…” Non l’abbiamo presa perché in quel momento non potevamo prenderla.

Perché non ti piace Tom Sawyer? Io ricordo che leggevo e rileggevo la scena in cui fa credere a tutti che dipingere lo steccato sia una cosa meravigliosa, un vero privilegio, arrivando a farsi pagare per cedere il pennello e ogni volta ridevo come una matta!
Io quella scena l’ho addirittura letta in classe studiando inglese alle medie! Povero Tom Sawyer, hai ragione. Il problema è il confronto con il suo amico Huck Finn, un personaggio troppo gigantesco per non schiacciarlo. In ogni caso il fatto che Ennio legga questi classici per ragazzi, oltre a essere coerente con il recupero delle materie elementari che fa con la maestra, contiene un suggerimento: come dice lui stesso, forse i libri per l’infanzia andrebbero letti solo da adulti. A leggerli da piccoli ci sfuggono troppe cose! 

Citi Twain e  Dickens. Con Defoe e Swift, tanto per aggiungerne un paio, sono gli autori che leggevamo da ragazzini non sapendo di essere davanti a pietre miliari della letteratura, non certo solo per ragazzi. E leggevamo traduzioni non semplificate o ridotte . Oggi esiste una scelta molto più ampia ma mi pare che si tenda molto a semplificare, soprattutto  il linguaggio.
E’ un bene? Può essere propedeutico per letture più complesse o è solo un inutile svilimento?

Ti dirò la verità. Fino a qualche anno fa io credevo poco nel valore della lettura in sé, perché pensavo che ha senso leggere solo se si leggono grandi libri, capaci cambiare il tuo sguardo sul mondo, mentre leggere libri dozzinali, ripetitivi, di puro intrattenimento non serve a nulla. Adesso penso che il semplice atto di leggere abbia un enorme significato, indipendentemente dal valore di quello che leggi. Perché la lettura è un’attività sempre più in crisi, aggredita da modi più facili e seduttivi per passare il tempo. La lettura va conservata come i primitivi conservavano il fuoco: perché non erano sicuri di saperlo riaccendere.

MilanoNera ringrazia Raul Montanari per la disponibilità.
Qui la nostra recensione a Il vizio della solitudine, Baldini + Castoldi

Cristina Aicardi

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