Ci sono almeno due elementi che danno una buona definizione de “Lo spazio nero”: la profonditŕ e il tempo. Questo l’aveva giŕ capito Edgar Allan Poe.
La profonditŕ, il baratro, il pozzo sul quale ci affacciamo e il tempo: il ritmo scandito da una lama oscillante o da un qualsiasi “tic-tac” ben orchestrato. Questi due elementi, ripeto, sono un buon punto di partenza per l’analisi e la comprensione di un qualsiasi spazio nero letterario.
Ma da soli non bastano.
Le paure ancestrali di ciascuno di noi, i “vuoti” che ci portiamo dietro e le finte certezze – ne abbiamo giŕ discusso – dietro le quali ci nascondiamo possono essere altre componenti per la creazione di romani gialli e noir efficaci e d’effetto. Ma a una condizione.
Che la cassaforte resti chiusa.
Da oggi, il mio personale “Lo spazio nero” continuerŕ la propria evoluzione – cosě come vi avevo promesso – mettendo in pratica le definizioni che abbiamo cominciato a scoprire nell’uso piů consono al loro scopo: il disquisire della letteratura di genere. E lo scriverne.
Se il guardare gelosamente i tesori racchiusi nella cassaforte e trarne ispirazione, permettono di creare una realtŕ verosimile nella quale ambientare le nostre narrazioni, č solo il lasciarsi perdere che consente di prenderne le dovute distanze e quindi di trasformare il verosimile in plausibile. Salvandoci la vita. Forse.
“Lo spazio nero” č profondo ma non vuoto e il ritmo con il quale si espande č quello del nostro respiro o di quello che vogliamo agiti il petto di chi – bontŕ sua e vostra – decide di leggerci. Anche in questo momento.