Bagnacavallo si trova in Romagna ed è situata praticamente a metà tra Faenza e Ravenna.
Il monastero della cappuccine di San Giovanni Battista di Bagnacavallo è stato fondato nel 1819 , dal suor Marianna Fabbri, appartenente alle suore cappuccine o clarisse cappuccine (create in loco nel 1753 con l’appoggio del frate minore francescano o cappuccino Francesco Maria Beltrami ).
Suor Marianna con alcune (poche) consorelle, dopo un periodo di vita claustrale in famiglia, riuscì ad avere a disposizione una piccola costruzione (detta il “Conventino”) da dove offrire assistenza alle donne inferme del «pubblico Spedale». Il loro esempio attrasse al Conventino altre monache da San Girolamo, da Santa Chiara e da altri monasteri non francescani.
Secondo quanto riportato nella descrizione in calce sulla presentazione della attuale chiesa di San Giovanni Battista, nel 1818 suor Marianna in virtù del finanziamento di diversi benefattori, riuscì ad acquistare il monastero di San Giovanni Battista, costruito nel secolo XIV dal frate camaldolese Leonardo Brusamolini. I locali del monastero infatti, soppressi come struttura religiosa nel 1798 dal Governo Italiano, erano diventati proprietà del demanio. Dopo alcuni anni, però. acquistati dal Conte Paolo Gaiani, furono rivenduti a Suor Marianna Fabbri di Bagnacavallo.
Nel 1819 Suor Marianna e le sue consorelle intrapresero l’’attività che rese famoso il monastero: un educandato in cui ospitare le figlie dei benefattori affinché fossero educate religiosamente (tra queste allieve fu accolta a quattro anni anche Allegra, figlia di Lord Byron).
La duplice attività delle suore del monastero di San Giovanni Battista, che rispondeva alle aspettative dei buoni convitti cattolici di quel tempo, regalò loro stima e successo.
Successo riscosso sino al 1831, quando il numero delle allieve cominciò a calare sensibilmente tanto da portare alla chiusura dell’educandato nel 1842.
Cristina Biolcati ha ambientato la sua storia, un racconto lungo pubblicato nei Gechi della Todaro, proprio nel Convento di San Giovanni nel 1822 ma, invece di presentare il convento e l’educandato come secondo la cronaca doveva essere all’epoca di maggior fulgore della struttura, ce lo descrive come un immaginario “Convento gemello”, tragico palcoscenico del suo angosciante gothic noir e scenario di un efferato e inspiegabile delitto.
Marzo del 1822 : una vecchia suora novantaquattrenne, suor Teresa, che ha trascorso buona parte della sua lunga vita in stretta clausura nella sua cella tra le mura del Convento di San Giovanni – dove avrebbe aver persino partorito un figlio nato morto frutto di una lontana colpa commessa con un frate camaldolese – , viene trovata sgozzata nel letto e in un lago di sangue da suor Primetta addetta alle cucine.
A chiamare la Gendarmeria Pontificia con sede a Faenza, nella persona di Alfredo Casadio, ufficiale e Dante Graziani sottoposto, sarà Suon Amabile, Badessa del Convento che conta soltanto sei persone all’opera tra le sue mura per ben otto convittrici : quattro suore, Amabile, la badessa, la già citata cuoca, suor Primetta, , suor Grazia, addetta alle pulizie, suor Diletta incaricata delle bambine, il custode e coltivatore dell’orto Marcello e la moglie Marisa la maestra di scuola , alloggiati in una casetta, poco lontana dalle mura.
La religiosa morta, colta e raffinata amanuense, intratteneva rapporti epistolari con le varie curie e si occupava di libri, ragion per cui i due gendarmi pontifici decideranno, come prima cosa, di ispezionare lo scrittoio, in cerca d’indizi. Il fatto che la vecchia suora fosse stata incaricata dagli zii di Allegra Byron di dar loro notizie della nipotina spingerà anche ad approfondire le indagini in quella direzione. Salterà subito all’occhio dei due investigatori che, data l’impossibilità di accedere di notte al Convento per la giornaliera chiusura con spranghe del portone, si dovrà per forza indirizzare e limitare le indagini alle persone presenti all’interno della struttura religiosa.
Nonostante l’ostinato riserbo della badessa suor Amabile e le elusive risposte delle suore, un particolare scoperto dal Graziani, e e un altro preciso indizio sul cadavere di Suor Teresa faranno intuire a Casadio il movente e la possibile identità della mano assassina. Un omicidio legato a un incontrollabile raptus? O altro…?
Cristina Biolcati, l’autrice, conclude la sua storia scrivendo così: “La vicenda di Allegra Byron, deceduta a soli cinque anni nel convento di San Giovanni a Bagnacavallo, nel ravennate, è storia vera. Era il 20 aprile del 1822, un sabato. Sull’irresponsabilità del padre e sui suoi peccati credo si sia già a lungo dibattuto, in campo letterario. Qui s’intende nient’altro che rendere omaggio a quella bambina, vissuta così lontano da casa e dall’affetto dei suoi cari, in un luogo angusto dove poi ha trovato la morte. Il fatto storico interseca quindi una vicenda di fantasia, che sfocia nel romanzo.”
Allegra Byron infatti, diventata l’ideale e tragica coprotagonista del racconto e che ne ha fornito ispirazione, sviluppò una febbre alta il 13 aprile 1822. Le suore chiamarono un medico, che valutò che fosse afflitta da “febbri leggere e lente”. Suo padre fu informato, ma Byron non la andò a trovare. Approvò tuttavia l’uso di qualsiasi intervento medico fosse ritenuto necessario.
Il 15 aprile, Allegra fu considerata fuori pericolo, ma il 20 aprile sopravvenne un improvviso peggioramento e la piccola morì assistita da tre medici e dalle suore del convento, a causa di un morbo, identificato in seguito dai biografi paterni probabilmente come un tifo.
In grazia di Dio – Cristina Biolcati
Patrizia Debicke