Intervista a Giancarlo De Cataldo

Giancarlo De Cataldo è stato il primo autore italiano invitato a partecipare alla VI edizione del Festival delle Letterature di Roma. Nella splendida cornice della Basilica di Massenzio, lo scrittore tarentino ha letto il racconto inedito Un sogno turco, accompagnato dalle suggestive sonorità etniche – concepite, anch’esse, per l’occasione – di Luca Venitucci, (fisarmonica e percussioni), Tullio Visioli (flauti dolci) e Mario Camporeale (cifteli, cetra albanese). Ottima la scelta di chiamare Valerio Mastandrea a leggere un brano di Nelle mani giuste, ultimo romanzo di De Cataldo, appena uscito per Einaudi. Alla vigilia dell’intervento alla prestigiosa manifestazione capitolina, in un’atmosfera di raggiante attesa, lo scrittore ha incontrato i giornalisti. A chi gli ha chiesto se non avesse intenzione di lasciare la toga per via degli impegni sempre più numerosi e stimolanti, De Cataldo ha risposto negativamente: la magistratura resta un punto fermo poiché lo tiene saldamente ancorato alla realtà e rappresenta, al contempo, un’inestimabile possibilità di ispirazione.

La grandezza di Romanzo criminale risiede nell’abilità che lei dimostra nel rimpicciolirsi di fronte al materiale narrativo: giganteggiano i fatti e i personaggi, mentre la prospettiva autoriale è impercettibile. Come si arriva a questo esito? Quanto conta la totale conoscenza dell’oggetto di cui si decide di scrivere? E quanto l’inventiva personale?
Sono due momenti del procedimento narrativo completamente diversi. La conoscenza dell’oggetto non è necessariamente presupposta dal fatto di aver vissuto direttamente una certa stagione, se fosse così allora non esisterebbe il romanzo storico e Manzoni non avrebbe scritto I Promessi sposi. In questa fase è evidente che l’attività di documentazione costituisce un passaggio fondamentale per poi impadronirsi della materia. L’impadronirsi della materia consente allo scrittore di dotare i personaggi che racconta di volti, espressioni, facce, modi di dire; di immaginare il loro abbigliamento, i mezzi di trasporto di cui potrebbero servirsi; di pensare la musica che ascoltano; di concepire, insomma, la completa costellazione antropologica di riferimento del personaggio, quella che ne delinea la sua misura e la sua forza. Tutti i tipi umani sono replicabili, però una cosa è dire “il bandito”, un’altra è “il determinato bandito romano del tempo di Romanzo criminale”, in quest’ultimo caso significa dire qualcosa di più, e questo di più va descritto, spiegato, “significato”. Uno dei nodi migliori per “significare” i personaggi è quella di far scomparire la voce prepotente del narratore e di rimettere il senso del racconto nel suo complesso all’azione e ai conflitti tra i personaggi. Tale propensione non nasce certamente con me né con la letteratura italiana, piuttosto penso a Dostoviesky che applicava questo procedimento narrativo a larghissime mani nei suoi grandi romanzi, prestando la propria voce a ciascuno dei suoi personaggi, frammentandosi in essi, affidando loro anche le pause, i momenti di riflessione e consegnandogli il suo stesso senso morale, quello che una volta si sarebbe definito “il messaggio”.

Come si è rivelata l’esperienza della curatela letteraria nell’antologia Crimini? Cosa significa fornire un filo conduttore ad autori dalla forte individualità come Camilleri, Ammaniti e Lucarelli?
Non si fornisce nessun filo conduttore. Si dà una traccia esilissima, come il canovaccio della commedia dell’arte: «Serve raccontare l’Italia di oggi come voi sapete fare, sceglietene un pezzo e andate avanti». I fili conduttori si rintracciano alla fine, è solo allora che emergono le ossessioni di quegli acuti osservatori della realtà che sono gli autori del noir italiano: l’ossessione della corruzione, della presenza sempre crescente dello straniero e l’ossessione tutta italiana della svolta, del miracolo, del “cambiamo vita”, che è l’altra faccia della depressione nostrana di questi ultimi anni.

Com’è stata, invece, l’esperienza della curatela nella versione televisiva di Crimini?
Lì ci sono dei passaggi ulteriori, tutto ciò che si produce va forzatamente “televisivizzato”, reso cioè commestibile a un mezzo per sua definizione destinato a un pubblico trasversale, generale, familiare. Eppure in Crimini si è andato un passettino oltre quello che di solito passa nella televisione del nostro paese, è stata accettata una maggiore durezza e un maggiore realismo rispetto a quest’Italia anni Cinquanta, un po’ edulcorata e stereotipata, che viene raccontata abitualmente dalla fiction. Non a caso siamo stati ringraziati con la soppressione del programma.

Quand’è che la “questione delle origini” diventa “riconciliazione con le origini”? Quali sono gli elementi che fanno rapportare al Sud al di là dell’automatismo alla denuncia sociale?
Credo che non ci si riconcili mai, si può soltanto scendere a patti e stipulare delle tregue. Quando uno se ne va non si può mai riconciliare con i luoghi che ha abbandonato. Resta sempre, per un verso, uno straniero e, per l’altro, un nomade e forse questa è la condizione migliore oggi.

Nelle mani giuste è ambientato tra il 1992 e il 1993: molta mafia, anche Tangentopoli… cos’altro c’è?
Tutto quello che è successo in Italia in quegli anni: referendum per il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario, cambio di potere ai vertici italiani, travolgimento della classe politica della Prima Repubblica e, naturalmente, molti destini individuali che si intrecciano nella cronaca italiana del tempo. È, insomma, il periodo in cui si sono definiti gli andamenti che hanno caratterizzato la repubblica nella quale viviamo attualmente. Parlare di mafia, inoltre, vuol dire parlare dell’Italia, la mafia è il prodotto nazionale più noto al mondo, è impossibile non farci i conti. Le mani giuste comincia laddove finisce Romanzo criminale. Il filo rosso tra i due romanzi è rappresentato dal commissario Scialoja e da Patrizia, sono loro gli unici personaggi che ritornano, con sensibilità e ruoli diversi, poiché sono passati degli anni sia per loro sia per l’Italia rispetto a Romanzo criminale; intanto, anche lo scrittore cambia, studia, diventa diverso e scrive in modo diverso.

La letteratura può, in qualche modo, risultare addirittura più aderente alla realtà rispetto all’informazione?
C’è un’avida domanda di misurarsi, non dico con come le cose siano andate effettivamente, ma almeno con l’interpretazione che può darsi della nostra storia recente, interpretazione non gravata dai vincoli propri delle inchieste giudiziarie, né da quelli del giornalismo embedded (Sebbene esista un ottimo giornalismo d’inchiesta oggi in Italia, questo è sempre più rilegato a un ruolo marginale.) Ho usato il termine giornalismo giacché questo nuovo modo di raccontare contiene indubbiamente elementi mutuati da questo.

Anche per Romanzo criminale si sta lavorando per una serie televisiva?
È così, non c’è ancora un annuncio ufficiale ma la voce sta largamente circolando. Sarà sempre il regista Michele Placido a supervisionare l’intero progetto. Dovrebbero essere film-Tv ma con un impianto – visto che la produzione sarà di Sky, quindi della Tv satellitare – meno angusto e tradizionale di quello della Tv generalista di cui parlavamo prima. Anche questo è un’avventura, un tentativo, un esperimento, una possibilità: «Può la televisione satellitare allargare realmente spazi di libertà e portarci verso un linguaggio televisivo più moderno, più aggressivo, meno imbalsamato, in cui il pubblico possa anche scegliere di vedere una televisione diversa da quella che gli viene, diciamo, obbligatoriamente proposta?». In tutti i paesi normali dovrebbe potersi usufruire di molte televisioni, ciascuna delle quali con un prodotto diverso, invece di avere poche televisioni che offrono lo stesso prodotto ma con un nome differente.

Nella versione cinematografica di Romanzo criminale viene presentata, in qualche modo, una galleria di personaggi con dei tratti talmente umani da favorire quasi una sorta di condivisione delle loro scelte. In un’eventuale trasposizione cinematografica futura del suo nuovo romanzo, non teme che “le mani giuste” del titolo si rivelino essere un esempio quasi da condividere, da accettare e a cui rassegnarsi?
Recentemente ho rivisto l’intera saga del Padrino di Francis Ford Coppola, ese quella non è un’apologia del male e della sua grandezza tragica ai massimi livelli, io cambio mestiere. Ma vogliamo privarci di questo? Vogliamo privarci di Riccardo III? Vogliamo diventare politicamente corretti? Raccontare soltanto i santi? Nasconderci le verità scomode? Il male è più affascinante del bene. Quello che l’autore deve evitare è di fare suo lo sguardo del carnefice, però cercare di capire come ragiona costui è anche un dovere.

costanza ciminelli da www.mangialibri.com

costanza ciminelli

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