Intervista a Marco Polillo

I suoi “Bassotti” si sono trasformati in autentici cani lupo del giallo. Intuizione da grande editore accompagnata da gusto nella scelta degli autori e delle storie da proporre nonché da una proposta grafica di grosso impatto. E i lettori ringraziano devotamente. A fine maggio Marco Polillo farà lui il burattinaio di destini con Corpo morto per i tipi di Piemme, a oltre dieci anni dall’esordio con Testimone invisibile. Nell’attesa, una chiacchierata sulle condizioni del giallo o noir che dir si voglia. E della sua capacità di essere se stesso il delitto perfetto della storia della letteratura.

Giallo, noir, thriller, hard boiled, legal thriller, police procedural e via con altri sottogeneri: oggi questa spartizione è ancora legittima o la patchanka degli stili e la globalizzazione dei tempi l’hanno resa puro esercizio linguistico?

«Direi che è corretta la seconda ipotesi. Questi sottogeneri, se vogliamo chiamarli così, in realtà interessano più alla critica che ai lettori e a volte vengono usati anche a sproposito, soprattutto il termine noir. La vera divisione nel mistery, secondo me, è tra il giallo classico, quello a enigma, per intenderci, e l’hard boiled. Quanto agli altri, a parte la definizione di thriller che si discosta un po’ dal genere giallo in senso stretto, sono termini che sono sempre esistiti. Non erano forse legal thriller i casi di Perry Mason? O police procedural i libri nei quali le piste erano seguite dai detective di Scotland Yard? Oggi servono più per ragioni di marketing editoriale che altro.»

Il bene contro il male: è ancora questo il leit motiv delle storie noir?

«In teoria sì, in pratica fino a un certo punto. Chi legge una storia è interessato soprattutto a sapere come va a finire; non credo che quello al quale tiene di più sia che il bene finisca per trionfare sul male. Ricordiamoci che la scena finale del Silenzio degli innocenti vede Hannibal Lecter che va tranquillamente a caccia della sua prossima vittima. E non credo che il lettore/spettatore ne sia rimasto deluso.»

In questi ultimi due decenni si è assistito, almeno in Italia, a una progressiva apertura dei romanzi noir ai fatti di cronaca. La realtà come motore centrale attorno al quale costruire personaggi e trame. Significa che i nostri autori hanno progressivamente deficitato in fantasia pura o al contrario che sono gli animi letterari con più talento e sensibilità in grado di raccontare (anche) i tempi moderni?

«La mia idea è che sia venuta a mancare un po’ di fantasia. È vero che il mondo d’oggi fornisce spunti molto maggiori del passato, non fosse altro per la molteplicità dei mezzi d’informazione e la loro diffusione, ma quelle belle storie di una volta oggi non vengono nemmeno in mente agli autori. Un libro come Assassinio nel labirinto di J. J. Connington dove due gemelli vengono uccisi simultaneamente nei due centri di un labirinto all’inglese, quello formato da siepi, chi potrebbe immaginarlo di questi tempi?

Ma esiste ancora un preciso confine tra cronaca e letteratura? Non le sembra che, tanto per citare il fatto d’attualità più celebre, il “caso Eluana”, siamo di fronte a una rappresentazione mediatica e politica talmente noir da non necessitare altro infiocchettamento narrativo?

«Il confine esiste, perché la rappresentazione mediatica è asettica, fornisce elementi oggettivi, ma non può arrivare a sondare le emozioni dei personaggi. Può interpretarle, ma oltre non riesce ad andare. Nella finzione, invece, lo scrittore può permettersi tutto e quindi introduce elementi ulteriori che di sicuro arricchiscono la storia.»

Nell’intera storia della letteratura, qual è il più “giallo” autore non noir? Tanto per citare un esempio: una bestemmia dire che Dostoevskij scrisse un noir con Delitto e castigo?

«No, non è una bestemmia, ma francamente non sono in grado di rispondere a questa domanda. Da Caino e Abele in poi l’omicidio è sempre stato presente nel mondo. E nei libri di uccisioni ce ne sono state un’infinità. Non erano considerati gialli, e autori di gialli chi li aveva scritti, solo perché non era ancora nato il “genere” giallo come elemento caratterizzante di un romanzo. Ma è un elemento riduttivo. Il nome della rosa di Eco non è forse anch’esso un giallo?»

Quale la sua triade divina nella storia del giallo?

«Io, come sa, sono un cultore del giallo classico. Se devo scegliere degli autori lo faccio avendo in mente l’intera loro produzione. Poi magari ci sono gemme isolate, nell’ambito della produzione di certi scrittori, che spiccano come assoluti capolavori. Ma se sono isolate, se quello stesso autore non è più stato in grado di ripetersi a quei livelli, allora non lo posso includere tra i grandissimi. Un esempio è Niente orchidee per Miss Blandish di James Hadley Chase, un romanzo che rimane straordinario rileggendolo anche oggi a più di 70 anni dalla sua stesura, ma che spicca all’interno di una produzione a mio avviso modesta. La stessa Christie ha secondo me alternato cose buonissime ad altre molto meno interessanti. Dovendo comunque scegliere metterei al primo posto John Dickson Carr e Athur Conan Doyle. Un gradino più in basso Ellery Queen.»

Qual è la principale differenza tra Europa e continente americano intero nel rappresentare letterariamente il crimine?

«Molto sinteticamente direi che gli inglesi scrivono meglio e hanno storie più raffinate. Gli americani non raggiungono la qualità di scrittura dei loro cugini europei e raccontano storie decisamente più truci.»

Dove guardare nel pianeta per trovare un nome e una scuola che possano dire qualcosa di veramente nuovo nel giallo?

«Da quanto vedo, non mi sembra che ci sia nulla di veramente nuovo.»

A maggio 2002 pubblicò il suo primo “Bassotto”, I delitti di Praed Street di John Rhode. A marzo 2009 è uscito il numero 65, Il mistero del diario di Milward Kennedy. Grande successo di pubblico e critica, come si diceva per il vecchio avanspettacolo. Significa che, gira che ti rigira, alla fine il lettore italiano resta affezionato alla tradizione?

«Non credo sia una questione di tradizione. Il giallo, in Italia, è stato per decenni confinato in edicola. Non era una produzione nobile che meritava il palcoscenico della libreria. Poi è successo che il mercato dei best seller inglesi e americani ha cominciato a sfornare autori che vendevano tantissimo e che facevano (orrore!) gialli. E così i grandi editori non hanno potuto far altro che metterli nelle loro collane da libreria. P. D. James, Patricia Cornwell, John Grisham… e il pubblico li ha accolti con grande favore. Ma i loro vecchi progenitori, confinati in edicola, nessuno li aveva scoperti, attribuendo loro la dignità di autore, intendo, nonostante fossero tutti o quasi tutti dei personaggi straordinari. E quando li ho recuperati nei Bassotti si sono presentati, forse per la prima volta, a un pubblico diverso che non aveva mai avuto occasione di leggerli. E rappresentando il meglio della produzione letteraria dell’età d’oro del giallo il pubblico e la critica li hanno accolti con grande favore.

Qual è il “bassotto” che le ha portato più fortuna?

«Gliene indico tre. I delitti di Praed Street di John Rhode, perché è il numero 1 della collana. Il caso dei cioccolatini avvelenati di Anthony Berkeley, il numero 5, perché è quello che ha venduto di più (è arrivato alla sesta edizione, nda); Enigmi & Misteri, il numero 63, raccolta di racconti di vari autori, perché ero convinto che la scelta dei racconti fosse effettivamente straordinaria… ma non ne era convinto nessun altro, né la rete di vendita che l’aveva lavorato male, né i librai che l’avevano prenotato anche peggio. E invece ha avuto delle splendide recensioni e sta per arrivare in libreria la terza edizione.

Come giudica l’innamoramento di massa in Italia per Stieg Larsson?

«Si è risposto da solo. Innamoramento di massa. Così come certi best seller che hanno trionfalmente venduto centinaia di migliaia di copie, la spiegazione non può che essere questa. Non esiste una differenza così abissale tra i libri di Larsson e altri. Solo che il tam tam è partito bene, i libri sono piaciuti, l’onda è cresciuta e inevitabilmente tutti devono avere almeno un libro di Larsson in casa. Conosco persone che inorridirebbero all’idea di leggere un giallo, eppure hanno in casa la serie completa di Larsson…»

Da editore: è d’accordo o contrario al sistema di distribuzione delle mega librerie contro la parcellizzazione dei luoghi di fruizione dei libri?

«Le mega librerie hanno il vantaggio di offrire un’ampissima scelta di libri; le piccole hanno il vantaggio di offrire un servizio personalizzato, fatto di conoscenza del cliente e del prodotto. La Grande Distribuzione ha il vantaggio, per il cliente, di proporgli degli sconti che altrove spesso non ottiene, ma in una scelta estremamente ridotta di titoli. La verità è che tutte e tre queste modalità di vendita sono necessarie, proprio perché hanno caratteristiche estremamente diverse. Il problema è che la gestione di questi punti vendita deve essere fatta come Dio comanda. Se una piccola libreria non conosce bene il cliente e il prodotto, è destinata a morire; se una mega catena non è in grado di offrire un’enorme gamma di prodotti è inutile che sia mega.

Cosa chiede a una storia noir perché possa diventare libro?

«Chiedo di darmi qualcosa di più rispetto alle “solite” trame. E qualcosa di più può venire dai personaggi, dalle modalità del crimine, dai luoghi dove la storia si svolge, dall’epoca. A fine anno

pubblicherò un giallo di un’autrice inglese, una certa Barbara Cleverly, ambientato in India al

tempo delle colonie inglesi. Ecco, questa storia ha quel qualcosa in più che io cerco per le mie pubblicazioni.»

Dall’altra parte della barricata: Marco Polillo autore. A maggio esce Corpo morto per Piemme. Non è il suo primo titolo. Quale parte di sé, sconosciuta all’editore, è toccata dalla necessità di raccontare una storia noir?

«La storia dell’editoria è piena di editori che, a un certo punto, hanno scritto un libro. Credo sia inevitabile, a furia di leggere dattiloscritti, valutarli, correggerli, suggerire modifiche, bocciarli pensare, beh perché non provo anch’io a scrivere un romanzo? Nel mio caso è l’amore per il giallo classico. E infatti il mio romanzo, Corpo morto, non lo considero affatto un noir: è un giallo a enigma che segue tutte le caratteristiche – o almeno spero – che un buon mystery deve avere: più delitti commessi in modo inconsueto, altrimenti cala l’attenzione, in un setting particolare, in questo caso Positano, luogo che conosco benissimo e che difficilmente può essere collegato a dei delitti, con personaggi caratteristici, divertenti (c’è anche un editore un po’ cialtrone) e con un pizzico di romanticismo, indispensabile, come insegna il mio prediletto John Dickson Carr. Sintetizzando l’ho scritto per divertirmi, e ci sono riuscito, e per divertire e soddisfare chi lo leggerà, e speriamo che sia così. Avrò la risposta a partire dal 26 maggio, quando il romanzo arriverà in libreria.

Qualcosa in più sul soggetto?

«Uno dei protagonisti del mio precedente romanzo (Testimone invisibile, nda), il vicecommissario Zottìa, è in vacanza a Positano. Il giorno dopo il suo arrivo, il corpo di uno sconosciuto viene trovato in una barca ormeggiata nella baia ucciso da una coltellata alla gola. Le prime indagini sembrano non portare a nulla, ma ecco che un secondo delitto sconvolge il paese. Com’è possibile? È un classico giallo a enigma, come dicevo sopra – c’è persino un messaggio misterioso da decifrare – con un finale molto anomalo e, credo, sorprendente.

Rapporto scrittore-editor. Qual è il suo giudizio sul caso Raymond Carver vs Gordon Lish? Un editor può spingersi tanto avanti da diventare in pratica un co-autore?

«I rapporti tra editor e autore sono assai complicati. Ci sono autori che si mettono totalmente nelle mani di chi in casa editrice si occupa dei loro libri e autori che invece non permettono che si tocchi nemmeno una virgola. Occorre grande ragionevolezza da parte di entrambi: l’editor conosce il mercato più dell’autore, ma la creatività di quest’ultimo non può essere limitata al punto da dover stravolgere la storia o i suoi personaggi o farsi imporre regole stilistiche che non condivide. E comunque due cose sono certe: la prima è che nessuno obbliga un autore a pubblicare presso un determinato editore, e viceversa, quindi se i due non vanno d’accordo è bene che prendano strade separate. E la seconda è che nel bene e nel male l’editor non può modificare il suo ruolo sino a diventare, o a ritenersi, coautore del libro.

Un’editor come Laura Lepri ha affermato che la qualità media dei manoscritti si è alzata grazie al successo dei gialli. Pensa anche lei che la frequentazione di questo genere letterario possa aiutare a far scrivere bene?

«Non so giudicare se quanto dice Laura Lepri a proposito dei gialli sia vero o no. Mi fa piacere, in assoluto, che sia migliorata la qualità dei manoscritti inviati in lettura. Significa che forse gli italiani, grandi scrittori, intesi quantitativamente, ma modesti lettori, sempre intesi quantitativamente, hanno forse incominciato a invertire la tendenza. Non si può scrivere bene se non si è letto molto. Certo, qualcuno con una straordinaria dote naturale si può anche trovare, ma sono davvero pochi, mi creda.»

La Libreria del Giallo di Milano è ormai un ricordo. Conoscendo Milano, cos’era e cosa è diventata, è lecito un commento del tipo: “E la notizia dov’è”?

«Non so se in questo caso c’entri Milano e quello che è diventata, anche se sono anch’io molto critico al riguardo. Penso che sia davvero difficile mantenere in vita una libreria in un luogo oggettivamente non felice. E la Libreria del Giallo era in un luogo infelice. Fosse stata in una posizioni più centrale – e soprattutto più di passaggio – chissà… Comunque devo sottolineare che anche a Londra e a New York le librerie specializzate in gialli non se la passano molto bene. Le due inglesi si sono spostate e ridotte come spazi. E delle quattro newyorchesi che conosco due hanno chiuso e una si è trasferita in un locale molto più piccolo.»

 

Corrado Ori Tanzi

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