Giovanni Ricciardi, docente di lingue classiche e scrittore, è in libreria in questi giorni con la nona indagine del suo commissario Ottavio Ponzetti – La vendetta di Oreste Fazi Editore, Collana Darkside, pagg.222 -, che fa seguito alle precedenti, pubblicate tutte dal medesimo editore, tra il 2008 e oggi.
E proprio da questo titolo, La vendetta di Oreste, vorrei cominciare perché, sapendola anche docente di lingue classiche, il pensiero non può esimersi dal volare all’Oreste di Eschilo ed Euripide, che si fa vindice del padre Agamennone e uccide la madre Clitemnestra, uxoricida con la complicità dell’amante Egisto.
La prima domanda, dunque, non può essere che questa: quanto ha influito l’eroe della mitologia greca sulla creazione del protagonista del suo nuovo romanzo, il sedicente geometra Oreste Zarotti?
Il libro è incentrato sul tema della vera giustizia, che è secondo Eschilo la rottura della catena della vendetta e del sangue che continuamente chiama altro sangue. In questo senso il riferimento alla tragedia greca attraverso il nome di Oreste, che viene assolto dal tribunale dell’aeropago per aver sparso il sangue di sua madre, è evidentemente voluto.
Senza rivelare troppo della trama, nella cassaforte di Oreste Zarotti viene rinvenuta, dopo il suo decesso, una lettera d’amore indirizzata a uno sconosciuto Ulisse. Ecco dunque affacciarsi un’altra leggendaria figura mitologica, Ulisse-Odisseo, l’eroe in bilico costante tra sete di conoscenza e custodia degli affetti, che consuma dieci anni per esaurire la prima e consegnarsi ai secondi.
Il tema del viaggio, che ripropone alla mente il mito di Ulisse, è ben rappresentato nel suo romanzo dove lei, tra l’altro, afferma: “Ogni viaggio è dolore e fatica […]: lo sanno bene gli inglesi, e per questo dicono travel, quello che in italiano è travaglio, il dolore del parto. O del partire? E i francesi? Per loro travail è la dura legge del lavoro. Ma gli inglesi lo sanno più di tutti, e lo condensano in quel termine perché per loro il viaggio è sempre attraversare un mare e non sapere se ci sarà ritorno”. Il viaggio, però, per Ulisse-Odisseo è anche scoperta. Non crede che nel romanzo assuma anche questa valenza?
Nel viaggio c’è sempre la scoperta, e ogni indagine è in qualche modo un viaggio alla ricerca di un segreto, che termina con il suo svelamento. Ma in questo libro c’è anche il tema dell’esilio, della impossibilità di ritrovare le proprie radici, che non permette al moderno Ulisse di “tornare a casa” perché all’esilio – per la dura legge della Storia – nel suo caso non è concesso il ritorno.
Il commissario Ottavio Ponzetti è protagonista di tutti i nove romanzi da lei finora pubblicati, accompagnato dal fedele ispettore Mario Iannotta, deuteragonista tra l’altro in alcuni siparietti di irresistibile verve, ma anche suggeritore di acuto buon senso e latore di indiscussa empatia. La figura del “secondo” ricorre nel romanzo poliziesco fin dalle sue origini, Watson docet, per illuminare con bonarietà ma minor acume, il genio del protagonista.Anche per lei Mario Iannotta incarna questo ruolo?
Certamente. Ogni giallo si specchia nella tradizione da cui questo genere nasce. Il “deuteragonista” ha la funzione del personaggio che permette al protagonista di sviluppare il ragionamento attraverso il dialogo. È in fondo una figura teatrale fissa e necessaria per far risaltare l’intelligenza e l’acume del personaggio principale. Ma Iannotta non è solo una semplice “spalla”: ha la sua intelligenza, più pratica e concreta anche se meno profonda di quella di Ponzetti. Ciononostante, sa orientare il protagonista offrendo al commissario quello che a volte Ponzetti smarrisce: il senso della realtà, l’attenzione alle cose così come sono.
I suoi romanzi sono intrisi di solido realismo, venato spesso di un senso doloroso della quotidianità. Ne La vendetta di Oreste il commissario Ponzetti afferma che “la vita è un affare imperfetto”. Insomma, un sentimento leopardiano del nostro esistere ?
Un sentimento “leopardiano” implicherebbe un pessimismo profondo sulla realtà umana che nei miei libri non c’è. Piuttosto in Ponzetti c’è la consapevolezza che il limite accomuna tutti gli uomini, che il campo dei buoni non è così nettamente separato da quello dei cattivi. Un realismo che piuttosto definirei manzoniano, se dobbiamo trovare un “padre nobile” di questi miei libri. Manzoniano nel senso che nessun personaggio, anche il migliore, è esente da difetti, e nessun cattivo lo è così profondamente da escludere per lui una possibilità di cambiamento.
Nei suoi primi cinque romanzi l’ambientazione era rigorosamente romana, in questo invece lei affianca alla città eterna un’ambientazione “altra”, l’Istria appunto. Come peraltro aveva già fatto con Buenos Aires ne Gli occhi di Borges, con la Sicilia ne La canzone del sangue e con Barcellona ne L’undicesima ora. Serge Quadruppani in un suo saggio sull’attrattiva della componente d’ambiente nel romanzo poliziesco afferma che molta parte del successo all’estero, di cui godono gli autori italiani, risiede nella loro capacità di rendere la suggestione d’ambiente e di costume. Lei è d’accordo?
Credo di sì. E mi permetto di aggiungere che all’estero piace una certa rappresentazione dell’Italia e dell’italianità che non è esente da luoghi comuni, e perciò rassicurante. I gialli seriali lo sono: gli spazi sono sempre quelli, la dinamica dei rapporti tra i personaggi e la loro dimensione “regionale” ben marcata. È una chiave del successo dei nostri gialli all’estero. Nei miei libri sono caratterizzati sempre ambienti e aspetti di Roma, nei suoi diversi quartieri, per esempio.
In precedenti interviste lei ha dichiarato che la dimensione del romanzo poliziesco le è servita come palestra, prima di cimentarsi nella narrativa senza etichette di genere, mainstream potremmo dire.
Io trovo invece che lei sfugga già oggi a tali vincoli di genere, al pari di alcuni altri autori italiani del panorama giallo-noir. Non troppi però, oserei dire. E che, spesso, le etichette di genere servano solo a editori che vogliono sfruttare il crescente successo del crime o a lettori “timidi”, che necessitano di una guida alla scelta. Lei che cosa ne pensa?
Il giallo è ancora – di fatto – considerato un “sottogenere” che funziona perché vende bene, o comunque meglio della letteratura tout court. Ma è sempre stato così. Solo che fino agli anni 70-80 la divisione tra generi era anche fisica: in libreria entrava la letteratura, mentre i gialli, la fantascienza e i cosiddetti romanzi rosa si vendevano prevalentemente in edicola. Ma in realtà anche autori “alti” come Gadda, Sciascia o Eco hanno scritto gialli, e già in questo si vede come il giallo abbia funzionato da sempre in Italia – oltre che come genere di “intrattenimento” – anche come ingrediente mescolato alla letteratura non di genere. Oggi è possibile compiere più facilmente queste operazioni di ibridazione. Il mio ultimo libro ha alcuni caratteri del romanzo storico, pur restando un giallo. Poi, di fatto, sullo scaffale – qui entra anche l’aspetto commerciale e pratico – lo si trova tra i gialli. In questa commistione resta il fatto che ad esempio un premio come lo Strega non prevede che possano essere selezionati dei gialli in cinquina. O perlomeno ha fatto in modo che non siano mai arrivati.
Nei suoi romanzi si respira cultura: poesia, Jorge Louis Borges ne Gli occhi di Borges appunto, ma anche Umberto Saba e Quinto Orazio Flacco ne La vendetta di Oreste; architettura, Antoni Gaudì ne L’undicesima ora; tragedia classica, Eschilo ed Euripide ne La vendetta di Oreste. E musica. La narrativa per lei deve essere ancora veicolo di facilitazione del sapere?
Si chiama “storytelling”. Far passare un contenuto “classico” attraverso un canale facilitante come una trama romanzesca è sempre stato un aspetto della produzione narrativa. Sappiamo oggi molto di più della tragedia degli armeni per via de La masseria delle allodole di Antonia Arslan che attraverso i libri di storia. Credo che la narrativa svolga da sempre questa funzione. Per quanto mi riguarda, inserisco questi contenuti perché mi piacciono, non innanzitutto per essere un facilitatore del sapere.
Per finire una domanda di parte, da chi è ancora innamorato di studi classici. Nella mia città, Bologna, lo storico liceo “Luigi Galvani” sembra non risentire del costante calo di iscrizioni che affligge invece istituti consimili in molte parti d’Italia. Eppure La lingua geniale di Andrea Marcolongo (Laterza), che tratta di greco antico e di aoristi, ha venduto decine di migliaia di copie. Il Sole 24 ore, qualche tempo fa, si interrogava appunto sul tema “Ma serve ancora a qualcosa il liceo classico?” Lei come risponderebbe?
Credo che serva ancora a molto. Serve a formare integralmente la persona, accostandola al pensiero e alle parole dei giganti sulle cui spalle poggia la nostra identità di uomini di oggi. Serve ad abituare al ragionamento e a veicolare i contenuti che riflettono sulle grandi domande dell’uomo. Serve anche a creare quelle famose “competenze” di cui si parla tanto oggi. La traduzione e lo studio delle lingue antiche e della filosofia sono palestre imbattibili di allenamento al pensiero critico, alla capacità di decodificare e ricostruire un pensiero usando codici complessi. Sono l’antidoto alla credulità di oggi. A patto che il liceo classico sappia rinnovarsi nella metodologia e nella didattica, adattando all’oggi la forma dell’insegnamento, senza cedere sui contenuti.
A Giovanni Ricciardi desidero rivolgere un ringraziamento particolare, innanzitutto per la cortesia e la tempestività con cui ha risposto alle mie domande, ma anche per essere, e qui gli rubo la citazione, un autentico storyteller, che abbina in modo magistrale immaginazione, storia e riferimenti culturali, senza mai perdere il tocco lieve dell’intrattenimento. E, lo confesso, mi basta leggere alcune sue risposte a questa intervista, con quei richiami alla tragedia greca e al pessimismo manzoniano, per invidiare parecchio i suoi allievi.
GIOVANNI RICCIARDI è professore di greco e latino in un liceo di Roma. Il personaggio da lui creato, il commissario Ottavio Ponzetti, è protagonista di una fortunata serie di finora nove romanzi tra cui I gatti lo sapranno, vincitore del premio Belgioioso Giallo 2008; Il silenzio degli occhi, finalista al premio Fenice Europa 2012; Il dono delle lacrime, candidato al premio Scerbanenco 2014. Il penultimo episodio della serie è L’undicesima ora, del 2017. Una raccolta con le prime tre indagini del commissario Ponzetti è uscita nel 2012; un’altra, con altre tre, nel 2015; la terza, con le ultime due, nel 2018. La vendetta di Oreste, sempre per i tipi di Fazi Editore, è stata pubblicata a luglio 2019.