Intervista a Roberta De Falco – Il tempo non cancella

download (4)“Il tempo non cancella” è il terzo romanzo che vede tra i protagonisti il commissario Ettore Benussi, il nome è un omaggio a Svevo, commissario sovrappeso, gaffeur gentile e con il sogno nel cassetto di diventare scrittore. Un romanzo che però non si può definire un vero e proprio giallo, c’è ovviamente qualcosa da scoprire, ma non è questo il tema principale del romanzo.
Qui si parla di ferite che vengono da lontano, che non si sono mai rimarginate perché continuamente alimentate dall’ odio, dal risentimento e soprattutto da parole non dette, soffocate dall’orgoglio e dal rancore.
Rancore che permea anche il mondo editoriale nel quale la storia si muove. Un mondo che viene descritto come pieno di invidia, immodestia, vanità e inganni. Tutto tempo perso, sprecato per nulla, quando invece potebbe venire impiegato per cercare almeno di sciogliere, allentare o se non altro pacificare i nodi dell’anima e vivere più serenamente.
Da sfondo alla storia la splendida città di Trieste, tuttora ferita da un passato non ancora così lontano da non lasciare strascichi.

A chiudere il romanzo una poesia di Emily Dickinson, che ne riassume il senso.

Non sappiamo di andare quando andiamo.
Noi scherziamo nel chiudere la porta.
Dietro, il Destino mette il catenaccio,
e non entriamo più

Molti libri racchiudono un messaggio, questo anche e soprattutto un’esortazione.

Fin dalla prima pagina il lettore è accompagnato da citazioni di Rilke, che soggiornò  a Trieste e che dedicò molti scritti al tema della mancanza di una patria. Tema che ricorre in tutto il libro, con riferimenti non solo alla storia passata dell’Istria, ma anche alla nuova immigrazione. Quanto è doloroso il senso di ” non appartenenza”, l’abbandono delle proprie radici?

Risponderò con le parole di Ivo Radek, lo scrittore che viene ferito misteriosamente nel mio ultimo libro :“Tutti noi, in un modo o nell’altro, ci sentiamo esiliati dalla nostra vera patria, traditi dal nostro tempo, umiliati dalle ingiustizie. Tutti noi sentiamo di appartenere ad un universo fatto di armonia, di bellezza, di giustizia che ci è stato sottratto e al quale vorremmo tornare.” Rilke, in quanto cantore dell’esilio per eccellenza, è il perfetto ispiratore di questo sentimento di straniamento e di disincanto che attraversa tutti i miei libri. Il ‘giallo’ è, in realtà, solo un pretesto per parlare delle ferite della Storia che ancora minano e rendono drammatici i rapporti con le persone.

Nel romanzo fai affermare a un tuo personaggio che ” senza vanità, inganno e invidia il mondo dei libri non potrebbe sopravvivere” , un mondo alla ricerca di personaggi più che di scrittori.E’ un pensiero che condividi? E se sì, come ti rapporti a questa realtà?

Trovo che in questi ultimi vent’anni, il protagonismo degli scrittori – pompati anche dalle subdole sirene dei mass media – a volte prevarichi la serietà e la profondità del ‘mestiere di scrivere’. Con l’irrompere del diktat delle classifiche, il mondo editoriale, poi, si è del tutto imbizzarrito, soprattutto nel rapporto tra editori e scrittori. Mentre una volta gli editori si facevano un vanto nel saper creare un catalogo di titoli sicuri, che potevano durare nel tempo, ora sembra che l’unica legge sia quella di trovare un libro che polverizzi tutti gli altri. Chi vende – e si sa vendere – vale. E chi non vende, è un fallito e, per favore, non rompa troppo le scatole. Come mi pongo io? Con la malinconia di chi vuole farsi largo in un mondo che non lo vuole. Ma non mi lamento. La sfida che avevo lanciato con gli editori è stata vinta. Il tempo deciderà se, nel tempo, anche i lettori sapranno apprezzarla, e divertirsi come ho fatto io.

Sempre riferendomi a frasi del libro, a un certo punto scrivi che” c’è  differenza  tra raccontare la propria vita e fare letteratura.” Quando un libro si può definire “letteratura?”

Troppo spesso si confonde il fatto di avere dei sentimenti forti – o una storia interessata alle spalle – con la capacità di scrivere un libro. Penso che la letteratura, al contrario, nasca dal distacco dalle emozioni, dalla capacità di chi scrive di saperle ricreare, senza un eccessivo coinvolgimento. Come dice Flaubert: “Ho scritto pagine di grande tenerezza senza amore, pagine infuocate senza alcun fuoco nel sangue. Ho immaginato, mi sono ricordato e ho combinato.” Questo per me vuol dire letteratura.

Protagonista dei tuoi romanzi è il commissario Benussi, personaggio atipico nel panorama di commissari e investigatori letterari. Mangione ma non un vero e proprio buongustaio, sovrappeso, un po’ sciatto nel vestire, spesso inopportuno, con una spiccata tendenza alla gaffe, quasi più interessato al proprio sogno di scrittura che ai casi, che probabilmente faticherebbe a risolvere senza l’aiuto dei collaboratori. Come è nato Benussi?

E’ nato dall’antipatia per uno stereotipo che sembra dominare le figure di tanti commissari o investigatori dell’universo poliziesco mondiale, a partire dagli americani per arrivare fino agli scandinavi. Vale a dire un uomo quasi sempre cinico, amaro e infelice, che vive solo, senza un vero impegno affettivo. Volevo invece inserire la figura di un uomo italiano ‘normale’, con problemi quotidiani, in cui tutti noi possiamo riconoscerci, con moglie e figlia adolescente, problemi di peso sui quali poter anche sorridere, prendendolo – e prendendoci – un po’ in giro. Benussi nasce dalla volontà di far sorridere i lettori con le sue goffagini e la sua stanchezza professionale, per creare un clima più leggero e umoristico in grado di alleggerire un po’ le storie spesso drammatiche e dolorose che racconto.

I personaggi femminili sono nel bene e nel male i più forti, determinati, decisi e  decisivi. E’ così anche nella vita, secondo te?

Le donne vivono un periodo storico di maggior vitalità rispetto agli uomini. Hanno ancora il senso della sfida, del futuro da conquistare. Devono sempre e comunque combattere con stereotipi e pregiudizi che non permettono loro mai di arrendersi e credere di essere ‘arrivate’. Devono sempre e comunque ricominciare, ogni volta, a dimostrare quando valgono. Dunque, sì, penso che i personaggi femminili siano molto più interessanti e sorprendenti da raccontare.

Quanto e come influisce la tua esperienza di sceneggiatrice, abituata a scrivere soggetti per cinema e tv, nella scrittura di un romanzo?

Mi ha aiutato nella struttura del racconto, nella capacità di seminare indizi nascosti, nel saper creare suspence e crescita narrativa. La drammaturgia, dai tempi del teatro greco ai film di Hollywood, ha sempre le stesse leggi interne. Io ho utilizzato gli attrezzi del mestiere, ma con molto più coinvolgimento e divertimento perché sapevo che questa volta, finalmente, nessun regista, produttore o attore sarebbe intervenuto per correggere quello che scrivevo.

Perché hai scelto di scrivere con un nom de plume?

Per gioco, per sfida, per divertimento. Non ho mai particolarmente amato il mio cognome Mazzoni e così, quando ho scritto il primo giallo, Nessuno è innocente, ho deciso, con la complicità della mia agente Vicki Satlow, di mandarlo agli editori sotto falso nome, per vedere se il libro avrebbe attratto l’attenzione, non perchè fossi così famosa, come sceneggiatrice, tutt’altro, ma per verificare se la storia funzionava senza essere inquadrata come l’amica di, la sceneggiatrice di, la figlia di…. Si sa quanto le conoscenze e il mondo di riferimento possano influenzare le scelte. Quando poi, dopo solo due settimane, la Sperling &Kupfer mi ha detto sì, ho deciso di continuare a giocare. E così è nata la de Falco. Ho scritto tre libri in due anni. Forse un po’ troppi, non avendo il seguito di lettori devoti di Camilleri né di Carofiglio. E’ stato un azzardo dell’editore? Forse.

La redazione di Milanonera ringrazia Roberta De Falco per la disponibilità.

Cristina Aicardi

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